Intervista all’artista Leonardo Pivi
CUBo – Circolo Università di Bologna. 1 Aprile 2022
Francesca Sibilla
Un immaginario fantastico ricco di memorie antiche che riaffiorano, opere dal forte impatto emotivo ed espressivo, una cura minuziosa e paziente per i dettagli, impercettibili fragilità e stati d’animo messi in evidenza, la materia che diventa protagonista. Questo e molto altro è il lavoro artistico di Leonardo Pivi.
Nato a Cesena nel 1965, formatosi artisticamente prima a Ravenna, poi all’Accademia delle Belle Arti di Bologna, vive e lavora a Riccione ed è docente di Tecniche del Mosaico presso l’accademia di Ravenna e Tecniche della Decorazione presso l’accademia di Foggia. La critica lo ha definito artista poliedrico ed eclettico per avere studiato in profondità e aver fatto proprie con estrema maestria la scultura, la pittura e perfino il mosaico, tecniche antiche cha ha ripreso in modo innovativo. Scandagliando con ironia le contraddizioni della nostra società, nelle sue opere Pivi esprime strutturalmente le ambivalenze dell’uomo contemporaneo attraverso opzioni contrapposte e dilemmatiche, come a volerci indicare che la conciliazione e la sintesi sono possibili attraverso l’arte e la sua bellezza. Moderno e antico, sacro e profano, eterno ed effimero, banale ed eccezionale, povero e prezioso, organico e inorganico, naturale e artificiale sono solo alcune delle molteplici tensioni che attraversano il suo lavoro e che ci forniscono, al tempo stesso, chiavi di lettura per decifrarlo. Nell’intervista, ripercorrendo alcuni momenti salienti del suo percorso formativo, Pivi esprime la sua visione artistica attraverso alcune delle sue più recenti produzioni e i suoi progetti futuri che vanno oltre alle dinamiche espositive, in una ricerca che sembra non esaurirsi mai.
La critica ti ha definito un artista eclettico per l’uso sapiente di diversi linguaggi. Tu come ti definiresti? Non è mai facile definirsi. Mi piace guardare il mondo con gli occhi dell’arte, immaginare, avere fantasia nei confronti di ciò che osservo. Da sempre l’interesse verso i diversi linguaggi, le grammatiche profonde radicate nella storia, mi ha portato ad andare oltre i miei ambiti di studio e formazione. Con l’analisi ho cercato di farli miei e interagire con essi. Mi ritrovo nella definizione che di me hanno dato diversi critici: un’artista che ama esprimersi tra le due e le tre dimensioni, passando dalla bidimensionalità alla tridimensionalità. Credo fermamente ci siano forti collegamenti tra un linguaggio e un altro: nella scultura c’è sempre un po’ di pittura e nella pittura c’è sempre un po’ di mosaico, il mosaico mi dà soluzioni che mi fanno pensare alla pittura e il contrario, le sculture antiche erano anche dipinte. Per questo ho sempre cercato di avere una visione più allargata. Solitamente è l’idea concettuale a sorreggere il mio lavoro e a determinare le mie scelte.
Rimanendo in ambito formativo, chi consideri i tuoi maestri?
Maestro è un concetto che si allarga. Ci sono stati maestri di vita e di insegnamento. Ho bellissimi ricordi già a partire dalle scuole elementari dove ricordo ci portavano spesso fuori a disegnare en plein air. Anche all’istituto d’arte diversi insegnanti sono stati per me punto di riferimento, con alcuni ho avuto un rapporto straordinario tutt’ora mantenuto. Del percorso in accademia ricordo con entusiasmo Vittorio d’Augusta e naturalmente Concetto Pozzati tra coloro che mi hanno trasmesso l’amore e la passione per l’arte. Anche i miei compagni di viaggio, con cui ho ancora relazioni di scambio e molti amici artisti, sono stati e sono dei maestri. Con diversi di loro ho vissuto insieme a Bologna ai tempi di Roberto Daolio, un critico straordinario che ha avuto Bologna in quegli anni, e che, insieme a Renato Barilli, ci ha seguito nelle nostre prime personali alla Galleria Neon. E naturalmente la mia compagna di vita e di avventure Mariacristina Serafini che cura larga parte dei miei cataloghi.
E nel campo dell’arte? Amo particolarmente tutto ciò che porta agli espressionisti: da Goya a Munch, da Rembrandt a Bacon, quel mondo tenebroso anche scientifico e naturalmente Leonardo da Vinci. Tutti maestri che, come dice la parola, eccellevano per le loro maestrie in un ambito specifico. Nell’ambito della scultura Bernini, Canova ma anche altri. Artisti molto diversi e distanti, geni dell’arte, che ho sempre cercato di analizzare per motivi filosofici e per le tecniche per cui si sono distinti.
Nel tuo lavoro hai recuperato un linguaggio antico, il mosaico, riprendendolo in chiave contemporanea. Avere abitato per tanti anni a Ravenna quanto ha influito sul tuo percorso?
Ravenna, capitale bizantina, è una città straordinaria, qui ho imparato a conoscere il mosaico. Nei primi anni dell’accademia svolgevo anche un percorso di restauro, in collaborazione con un laboratorio. Sono stati anni decisivi per la mia formazione e per l’ecletticità del mio lavoro: scoprire materiali che potevano essere usati nel lapideo, fare il ritocco pittorico negli affreschi oppure mettere mano ad un dipinto ad olio, richiedevano una professionalità allargata. In seguito ho dovuto scegliere tra il restauratore o l’artista: ho preso la seconda strada perché mi rendeva più felice. Uscito dall’accademia di Bologna, dopo tanti anni di formazione focalizzati sulla pittura, mi sono allontanato molto dal mosaico. Alcuni anni dopo, ho ripreso a guardarlo con occhi nuovi durante un primo corso di insegnamento in tecniche artistiche che mi fu affidato in un istituto professionale di Ravenna. Negli anni Novanta ho ricominciato a fare mosaici e da allora non ho più smesso.
Quali sono per te le potenzialità del mosaico come linguaggio artistico?
Il mosaico che più mi attrae è legato al mondo romano e bizantino, era il modo di narrare dell’antichità. Nei miei lavori sui rotocalchi mi piaceva l’idea di metterlo in relazione al nostro mondo pop, trasferendo immaginari attuali in questo mondo antico. Fino a quel momento le mie suggestioni provenivano da un mondo fantastico e onirico. Con il mosaico ho iniziato a guardare un immaginario che non mi apparteneva. Prima tra i maestri non ho ricordato Odille Redon o Scipione a cui guardavo in quegli anni. Da qui nascevano figure in bilico tra il sogno, il grottesco e la caricatura. In seguito, ho iniziato a guardare icone e personaggi della contemporaneità al di fuori dai loro contesti, fermandole nel tempo, proprio attraverso il mosaico.
A proposito di mosaico, ho apprezzato molto uno dei tuoi ultimi lavori 30 mila Anubis Serpent Swan, un lavoro a quattro mani nato dalla collaborazione con Francesco Cavaliere. Qual è la sua origine?
Il lavoro fu realizzato per la Gluck50. In quell’occasione siamo riusciti ad avere in residenza, per un mese, il famosissimo mosaico di Anubi, conservato nel Museo della Città di Rimini. Lo abbiamo studiato approfonditamente e abbiamo creato una performance davanti all’opera antica, servendoci anche di una scultura-armatura che ha fatto parte del nostro racconto. Da quell’esperienza, di studio e di racconto, è nata una nostra immagine musiva. Quanto realizzato non è una copia o una riproduzione, ma una sorta di prototipo ispirato anche ad alcuni testi storici che lasciavano margini di mistero e interpretazione del mosaico originale. In questo spazio l’immaginazione ha aperto alla creatività, da qui la nostra re-interpretazione artistica con un progetto innovativo in cui abbiamo mantenuto l’aspetto narrativo del mosaico raccontando una nuova storia.
Com’è nata la collaborazione con Francesco Cavaliere?
Ho conosciuto Francesco Cavaliere durante una sua performance a Milano, da subito abbiamo trovato intesa e affinità su alcuni linguaggi, soprattutto sul mosaico, condividendo immagini e riflessioni del mondo non solo antico. E’ nato così il nostro primo progetto, esposto in occasione di Manifesta 2018 a Palermo: un evento curato da Luca Trevisani che si svolgeva al Grand Hotel des Palmes. In questo contesto intrigante, abbiamo portato dei mosaici da viaggio e da lettura. Francesco ha letto questi mosaici improvvisando una storia nel corso di una performance. I mosaici sono stati pensati e realizzati a quattro mani e anche i racconti erano frutto di una mescolanza di suggestioni e conoscenze. In quell’occasione ci siamo accorti che vi erano due prospettive che si integravano perfettamente, da lì ha preso poi forma l’esperienza per la Gluck50. Da allora, pur vivendo in città diverse, lavoriamo ancora insieme su alcuni progetti che stiamo portando a termine a breve.
Le tue produzioni trasmettono un senso di fisicità e vitalità che va al di là della rappresentazione. Che rapporto hai con la materia, che significato ha per te?
Io mi occupo di superfici e una superficie può essere opaca, sbiancata, sporca, venata, vetrosa, preziosa, manomessa, viva, organica, calpestabile, screpolata…potrei andare avanti per ore. Con l’avvento della cryptoart, stiamo assistendo alla dematerializzazione dell’arte: l’arte vive sempre più per immagini e sta perdendo concretezza e fisicità, le opere sono diventate quasi prodotti esclusivamente elettronici. Nell’arte invece tutti gli organi sensoriali devono essere coinvolti: la vista, il tatto, l’udito, l’olfatto. Per uno sculture è fondamentale ascoltarsi mentre lavora. E’ importante che anche le nuove generazioni si confrontino con la fisicità dell’arte. Possiamo raccontare loro che Rembrandt è stato un grande maestro, ma per capirlo fino in fondo è necessario stare davanti all’opera: un grande capolavoro vive di quello che ci ha messo l’artista, ma anche di quello che sappiamo recepire. Se una di queste dimensioni viene meno, salta tutto. Perdere i segreti professionali, le maestranze, l’enorme universo sviluppato nel corso di secoli è un rischio e fare percorsi al contrario non è facile. Leggo positivamente il fatto che molti giovani in accademia stanno iniziando a comprendere la natura del problema e intraprendono percorsi controcorrente che danno la possibilità di imparare ancora attraverso il sapere delle mani.
Rimanendo in tema di fisicità le tue opere colpiscono anche per la scelta dei materiali. Tra queste ho apprezzato Busto d’uomo con cocorita esposta nella collettiva della scorsa estate EX4. Scelte stilistiche e contenutistiche che ritornano…
Negli ultimi anni il mio modo di approcciarmi alla scultura è cambiato molto: nei primi anni Novanta facevo sculture in cemento armato, gesso, legno, ho usato anche elementi naturali in tassidermia, ma quando il mondo è andato verso il silicone, l’iperrealismo, ho fatto una scelta controcorrente tornando verso i materiali classici come il marmo. Negli anni sono passato all’ibridazione, alla promiscuità, al mescolare, all’innestare, al far convivere elementi che provengono, nella loro origine, da situazioni completamente diverse: applicavo sulla scultura parti di mosaico, immagini stampate, materiali polimaterici che potessero dare più chiavi di lettura all’opera. In Busto d’uomo con cocorita il sacchetto diviene foulard, una radice fa da cappello, tutte queste possibilità di lettura sono diventate l’ingrediente fondamentale di questo ultimo lavoro che rimane una scultura. Questa logica vale anche per le opere a parete bidimensionali: anche il mosaico può essere interpretato come una scultura. Dove finisce la scultura, dove comincia il mosaico? Ecco, mi piace molto giocare su questi aspetti di depistaggio fuorviante.
Anche il tema della natura ritorna nelle opere sia nella scelta dei materiali sia nei contenuti, penso soprattutto agli ultimi lavori come Terra Bruciata…
Terra Bruciata era quella che facevano i contadini quando bruciavano le steppe di grano per arare i campi e dare nuova vita al terreno, è anche una strategia bellica ripresa nella seconda guerra mondiale e utilizzata al confine della Linea Gotica dove l’invasione dei tedeschi fece disastri, è anche il nome di un colore bellissimo che uso spesso nei miei quadri. L’elemento naturale nel mio lavoro c’è sempre stato: la natura è la fonte da cui attingo. Nei primi lavori maceravo funghi, dipingevo con i fiori, usavo materiali organici come piume, frammenti di denti di animali, conchiglie, madreperla, avorio, coralli, la natura è stata un supporto ma anche un legante, un serbatoio naturale fondamentale per me e per il mio lavoro.
La narrazione della natura è cambiata nel tuo percorso artistico. Qual è il tuo rapporto con l’ambiente?
Ho un approccio struggente. Sono un amante della natura: vado spesso in campagna, a funghi, tartufi, raccolgo erbe selvatiche, coltivo l’orto, ma sempre più spesso vedo un ambiente agonizzante che va aiutato. Penso sia importante innanzitutto viverlo. Se non viviamo l’ambiente non ci accorgiamo di ciò che sta succedendo e di ciò che dovremmo fare per salvarlo. Quando vedo capolavori come il mosaico di Anubi o La Gioconda penso che in queste opere ci sia davvero il segreto del millenario rapporto dell’uomo con la natura, si percepisce la possibilità di vivere davvero in armonia con l’ambiente. Oggi viviamo in un momento di forte sfruttamento del nostro pianeta, credo che l’uomo prima o poi debba risolvere questo conflitto.
Molte opere riprendono mondi arcaici provenienti dall’archeologia, tribù indigene, forse africane, forse azteche. Da dove derivano queste influenze?
Anni fa anche Molinari, noto critico di Bologna, me lo chiese. Si era accorto che nel mio lavoro c’era molta promiscuità, mentre il filosofo curatore Senaldi parlò di meticciato espressivo ovvero un qualcosa di contaminato, che spazia dagli indiani d’America alle figure disneyane. La critica Lorenzetti ha sottolineato che le mie creazioni nascono dalla ricerca che ha definito antropologia dell’immagine a spaziare da un’idea scultorea di stampo classico al giocattolo. Non so dare una risposta precisa, posso dire che l’aspetto più intrigante del mio lavoro è che questi influssi escono da un inconscio, sono retaggi che provengono da ciò che ho visto, immaginato, vissuto, letto però non ho mai usato matrici di riferimento, né ho mai avuto modelli a cui ispirarmi.
Altre due componenti presenti nei tuoi lavori o direttamente o in modo evocato sono la religione e il sacro. Che rapporto hai con queste due dimensioni?
Il mio rapporto sia con la religione sia con il sacro negli anni è cambiato molto così come è cambiata la mia visione della vita. Alcune opere non sarei più in grado di rifarle oggi. Non mi è mai interessato essere provocatorio nel mio lavoro. Molti lavori li facevo più per me che per gli altri, anche se dovrebbe essere il contrario.
Nei tuoi cicli artistici hai lavorato molto sull’immagine. Ho trovato di estrema attualità il lavoro per la Marena Rooms Gallery dove installazioni musive interagivano con immagini proiettate e riprese dal web. In un certo senso un lavoro anche anticipatore rispetto ai nostri tempi in cui i due linguaggi sembrano quasi fondersi…
Mi affascinava l’idea di far vivere le icone dei giorni nostri trasformandole in mosaici ma dotandole di una luce nuova. Il mosaico vive e si anima di luce, l’occhio interagisce con le immagini con rifrangenze e riflettenze, anche questo sfavillio ci emoziona e ci coinvolge. In quell’occasione ricreai la penombra, anche criptica, in stanze non illuminate dai faretti, ma solo da proiezioni di colore ovvero immagini elettroniche puntate sui mosaici. L’intento era anche l’effetto di scontro tra una tecnica millenaria, il mosaico, e il fatto di cronaca del momento: dal polpo Paul che prediceva i risultati dei mondiali di calcio alla caduta del presidente del Consiglio Berlusconi a Montecatini ecc. Per far riflettere su come la trattazione del fatto di cronaca da parte dei media cambia la comprensione della notizia e anche il significato dell’immagine viene modificato. Recentemente su 5835 Magazine è apparso un micromosaico che feci di Putin con un breve articolo, nel giro di pochi giorni la situazione è diventata quella triste che conosciamo oggi, il testo ha acquisito tutt’altro significato e anche la comprensione dell’immagine.
Ritornando al tema degli stimoli e delle connessioni, tra i tuoi ultimi lavori, un’opera completamente diversa è Mappa Concettuale, esposta in Materia Grigia in occasione dell’apertura di Imperfettoart. E’ molto diversa dalle precedenti opere…
Materia grigia fu una doppia personale con Marco Neri. La considero una sorta di testamento artistico. In questo lavoro ci sono tante radici, le origini del mio pensiero, il mio percorso artistico, il mio modo di lavorare. Dal punto di vista tecnico-formale ci sono il mosaico, la scultura, l’affresco, la pittura ad olio. Ci sono delle proiezioni, poesie ricomposte, frammenti di natura, tutto il mio mondo. Mappa concettuale va a toccare anche tutte le mie corde: l’ironia, la sacralità, la religione, la natura, le mie passioni, i miei interessi. I materiali utilizzati hanno anche un forte valore simbolico. Quando ho compiuto quest’opera mi sembrava l’atto conclusivo di un percorso in cui ho cercato di mettere in luce i collegamenti tra i lavori svolti nel tempo e tutta la ricerca compiuta negli anni.
Della tua produzione artistica molto vasta, apprezzo l’originalità delle tue opere, aspetto non scontato oggi. Siamo sommersi di immagini, con internet tutto è diventato estremamente accessibile, ciò che nasce in un angolo del pianeta lo ritroviamo identico dall’altra parte del mondo. In questo contesto a tuo avviso l’arte riesce ancora a generare qualcosa di veramente nuovo?
Credo che l’arte non sia morta, ci sono veramente grandi artisti in giro per il mondo che fanno lavori molto interessanti. Come dicevo prima, mi farebbe piacere capire qual è il nuovo volto dell’arte. Ogni tempo, ogni epoca ha la sua arte che lo rispecchia e lo rappresenta, oggi mi sembra stiamo perdendo le nostre origini, le matrici, i collegamenti con la storia. Conoscere le radici può aiutare a trasformare il lavoro in qualcosa di nuovo. Per trasgredire un linguaggio bisogna prima conoscerlo anche nella pratica mentre l’arte si sta allontanando sempre di più dal fare, molti artisti lo considerano svilente. In questo senso penso sia importante mantenere luoghi che educhino ancora al pensiero e alla pratica artistica.
In questa produzione ampia ci sono opere a cui sei particolarmente affezionato?
Le opere che amo di più sono quelle che non potrei più rifare, né tecnicamente né mentalmente. Le guardo con occhi meravigliati, sensibili. In questa schiera di lavori ci sono anche opere scomparse, distrutte, trafugate come per esempio la bellissima scultura sulla storia di Teodorico dedicata a mia madre: mi rimane solo un’immagine, un po’ quello che sta succedendo oggi con l’arte. Parte del mio cuore è in questi lavori.
Quale dovrebbe essere a tuo avviso il ruolo dell’artista nella nostra società?
In questo preciso momento storico credo che ogni artista debba fare di tutto perché il patrimonio culturale e la tradizione che abbiamo sviluppato nel corso di secoli non svanisca. Non si stanno estinguendo solo piante e animali, ma anche i valori legati alla superficie, alla plasticità, a ciò che è riconducibile all’epidermide della pittura, del mosaico, della scultura, si sta veramente perdendo un mondo, il pericolo è grande.
Ci dai qualche anticipazione sui tuoi prossimi progetti?
Il mio lavoro in studio prosegue, ho molte opere inedite. Per l’autunno io e Francesco Cavaliere stiamo preparando un grande evento espositivo che ricostruisce il nostro percorso con parti distinte fino ai più recenti lavori realizzati insieme. A breve sarà completato anche il libro d’artista a tiratura limitata che stiamo realizzando sempre congiuntamente. Raccoglie il percorso compiuto per arrivare alla realizzazione della residenza alla Gluck50, un lavoro unico con interventi, testi, immagini. In questa fatica ci sta accompagnando il bravo critico Daniele Torcellini. In cantiere anche la realizzazione di un disco con la performance svolta a Manifesta. Al momento sono anche molto impegnato con le accademie di Ravenna e Foggia dove insegno.
A proposito di stimoli la mente di un’artista riposa mai davvero?
Mi piacerebbe staccare la spina, ma non è facile. Penso continuamente al mio lavoro anche quando sto facendo altro. I momenti di pausa sono pochi, ci sono immagini che ricorrono più di altre e quelle ti danno l’input per impostare nuovi lavori. L’artista ha una specie di malattia da cui è impossibile disintossicarsi!
www.circolocubounibo.it/intervista-allartista-contemporaneo-leonardo-pivi/
Chiamata alle arti. Un auspicio di pace
da 5835, 27 febbraio 2022
Mario Guaraldi
Eccolo qui il protagonista che tiene il mondo col fiato sospeso: Vladimir Vladimirovič Putin, con quella faccia un po’ così, da ragioniere incapace di far male a una mosca, figurarsi a una metropoli come Kiev. Con quell’aria da cucciolo bastonato perché fa ancora pipi in casa sul tappeto ucraino. L’autore di questo strabiliante micro mosaico, un piccolo capolavoro (le tessere vitree sono di frazioni di millimetro, provate a ingrandire l’immagine con le dita), realizzato come castone della rivista originale di carta, si chiama Leonardo Pivi, scultore, insegna fra Foggia, Ravenna e il mondo, abita a Riccione ma è quasi del tutto sconosciuto ai riminesi, come è ovvio. Nemo propheta in patria. Ha promesso di regalare questo ritratto all’ex Presidente Putin appena si dimetterà, prima che sia troppo tardi e faccia la fine di Ceausescu o di Gheddafi; ordinando ai suoi scagnozzi la fine dell’invasione, prima che gli stessi scagnozzi ordinino a lui di togliersi dai piedi. Ma c’è poco da sperarci.
Tra parentesi, il ritratto di Pivi costa molto meno di un carro armato, ma spara più lontano…
Come sempre è capace di fare l’arte. 5835 Magazine lo propone ai propri lettori, in queste ore critiche per le sorti dell’Ucraina e dell’Europa, come auspicio di Pace: le mille piccole tessere policrome che concorrono a ritrarre il volto della realtà siano affidate alle abili mani degli artisti piuttosto che alle grinfie e alle interessate strumentalizzazioni degli strateghi militari di ambo le parti.
5835.it/la-chiamata-alle-arti-non-alle-armi/
L’arte di riconquistare una visione “liberata” del quotidiano
ee magazine numero 27 gennaio 2012
Tommaso Attendelli
Capace di padroneggiare i più disparati mezzi espressivi, Leonardo Pivi consegna allo spettatore delle sue opere un salutare senso di spaesamento, volto forse a permettergli di evadere, almeno per un attimo, dall’addomesticamento estetico impostoci della nostra contemporaneità.
Classe 1965, l’artista, nativo di Cesena, attualmente vive e lavora a Riccione.
Diplomato all’Accademia di Belle Arti di Bologna, affianca al suo operato artistico il ruolo di docente del corso di Ricerca musiva (workshop 1) presso l’Accademia di Belle Arti di Ravenna. Nella sua produzione, che dai primi anni Novanta ha cominciato a catalizzare l’attenzione della critica e del pubblico italiano, risulta chiaro come le molteplici tecniche utilizzate e i vari, ed eterogenei, materiali impiegati diventino nelle sue mani un’unica arma sempre puntata sullo stesso bersaglio: l’egemonia conformista della società moderna. Sculture, pitture, disegni e mosaici, sempre realizzati con una maniacale attenzione alla perfezione formale, trasportano la superficie dei suoi lavori tra le due e le tre dimensioni, mentre la nuda pietra, il lino ricamato, il cemento, le tessere musive, i metalli nobili e persino il materiale organico, come le ossa (anche umane), coniugano le proprie peculiarità plastiche alle suggestioni che riescono a evocare nell’economia complessiva delle opere. Caricaturali sculture fiabesche, pinocchi crocifissi e microscopici idoli colpiscono l’occhio e scuotono la sensibilità, stabilendo, grazie al loro valore simbolico, un ponte tra l’universo arcaico e il mondo presente. Il filone che probabilmente più rappresenta l’anima di Pivi è però quello delle sue composizioni musive. Mosaici policromi di dimensioni anche importanti che ritraggono le icone sbandierate dai nostri mass media, come Barbie o i personaggi dello star-system odierno, quando non soggetti inquietanti quali parti anatomiche e bambole dark. I suoi micromosaici, realizzati con la tecnica arcaica dell’opus vermiculatum, intarsiano invece le immagini stampate sui rotocalchi, donando una dimensione permanente al supporto leggi-e-getta. Pivi riattualizza così il linguaggio del mosaico. Le tessere musive paiono mutare in preziosi pixel che compongono immagini “rubate” al web, mezzo di cui l’artista si serve per leggere gli orientamenti del senso comune. Tra le realizzazioni musive più importanti create da Pivi, ricordiamo le opere pubbliche Vis a vis e Una finestra su Pegaso, collocate rispettivamente nella stazione ferroviaria di Modena e nella stazione Repubblica della metropolitana di Milano, oltre a Non hai vinto ritenta, opera che orna la sala congressi di palazzo Eracle a Contarina (Rovigo). Il progressivo successo riscosso da suo dirompente linguaggio ha portato l’artista a esporre in personali e collettive nei musei e gallerie private di tutta Italia, oltre che di Svizzera, Francia e Stati Uniti. Diffondendo così il suo “antidoto” estetico.
Da: I PITTORI NEI LORO LUOGHI
Catalogo EX4, Pinacoteca Comunale Bologna, 2021
Carmen Lorenzetti
Leonardo Pivi è un artista eclettico che mescola diverse pratiche artistiche che lo collocano in un luogo dai confini complessi e stratificati. Egli si definisce scultore, anche se ha praticato la pittura e il mosaico, l’animazione e il collage. Di ogni arte ha studiato profondamente le tecniche e usato consapevolmente i materiali come un antico alchimista, andando ad indagare i segreti delle cose e della natura. Usava i fiori per distillare i colori e raccoglieva le pietre lungo i fiumi e nei cortili per scolpire minuscole maschere che si potevano stringere in una mano. Era come seguire la carsica necessità del fare e dell’esprimersi. Quelle maschere, termine da cui deriva la parola persona, erano il luogo tipico dell’espressione delle emozioni umane, dove si mescolano gioia e dolore, pianto e riso per ricordare i topoi della fisiognomica antica e rinascimentale. L’espressione passava anche attraverso la figurazione, costruita con una iconografia del tutto personale, strana, favolistica, mitica, che mescolava le forme di un lontano passato e di un vorticoso futuro. Quelle forme nascevano da una ricerca di antropologia dell’immagine nella quale si evocavano suggestioni che andavano dalla statuaria classica al dinamismo dinoccolato dei giocattoli, passati attraverso una specie di centrifuga postmoderna da cui risultavano arti allungati e ipertrofici, protesi naturali o artificiali, sintomatiche di un umore tragicomico e paradossale. Ma la trappola dell’indifferenza del postmoderno, che tutto macina e digerisce, veniva evitata da una salda tenuta etica, oltre che estetica dell’artista, alla ricerca di una dimensione profonda nella vicenda umana vista attraverso la cartina di tornasole della storia atavica come di quella del presente. Il suo essere mitico ed ancestrale risale alle fonti del sacro, del perenne e dell’idea stessa dell’essenza dell’umanità, con tutti i suoi dolori, fragilità e ridicolaggini. Cortocircuiti temporali creano frizioni tra un passato mitico e immobile e un presente franante e incomprensibile rispetto al quale è inevitabile acquisire una veste “inattuale”. Quell’attitudine alla raccolta degli inizi ha accompagnato la pratica dell’artista, che sceglie e colleziona oggetti, materiali preziosi o di scarto, organici e artificiali per poi riutilizzarli – quale contemporaneo bricoleur – per le sue sculture polimateriche e sempre più frammentate, dove però non si affievolisce la traccia della figura, che appare come reperto naturale e meraviglioso di una contemporanea ed inquietante wunderkammer. Il Busto d’uomo con cocorita del 2011, in mostra, ne è un magistrale esempio: varie pietre sovrapposte compongono la figura protetta da una sciarpa fatta da una busta azzurra della spazzatura, una strana busta marrone è infagottata sulla testa che ha un occhio ritagliato a collage, mentre un uccello in tassidermia plana ad ali aperte sullo strano “cappello”. Famosi sono i mosaici dell’artista, dove icone della contemporaneità, a volte rese in maniera esagerata e caricaturale, costituiscono un contrappunto ai fatti e alle immagini mediali del giorno, e di queste prendono in prestito la superficie specchiante e scintillante, ma per costituire un icona, nel senso antico del termine, un’immagine unica e insostituibile costruita dalla perizia dell’artista: così viene paradossalmente recuperato il valore cultuale dell’immagine e messa tra parentesi l’idea di standardizzazione e di circolazione infinita dell’immagine contemporanea. Questa è anche una presa di posizione politica, una scelta ben precisa che viene fatta alla luce di una perdita di saperi legati ad un artigianato antico e tramandato insieme ad un sistema di valori, alla base dei quali stava uno sguardo in grado di distinguere la qualità di un’immagine. Capacità che secondo l’artista è ormai pressoché perduta. Forse, aggiungerei, e in questo il ruolo delle Accademie di Belle Arti è fondamentale, esistono ancora avamposti in cui educare lo sguardo rimane il problema basilare. Anche la sua serie di collage dedicate alle modelle dei giornali ragiona sulla standardizzazione dell’immagine, sull’idea chirurgica della bellezza, di cui l’artista interpreta in maniera letterale l’idea di tagliare e ritagliare. Ma poi crea dei mostri, semplicemente esagerando o rimpicciolendo le dimensioni, che rimandano sempre a quelle atmosfere del meraviglioso di cui si è parlato sopra e che oggi come non mai dovrebbero non solo stupire lo spettatore quanto portarlo ad una maggiore consapevolezza dell’immagine e dei desideri indotti dalla società dello spettacolo. In mostra l’autore ci presenta tre bassorilievi inediti e recentissimi della serie Paesaggi architettonici (2021) in cui ragiona in termini di spazio e di scansioni di superficie che creano allusioni di paesaggio con strani pianeti scuri che ci trasportano in un’altra dimensione. Lo spazio cui l’artista di solito allude con le sue figure diventa qui il protagonista e si materializza in maniera illusiva, concretandosi in diversi, affascinanti e sontuosi materiali. Le figurette delle origini, miniature improvvise e quasi occulte ad uno sguardo distratto, sopravvivono ironiche e attingono a meteorologie ancestrali o, in equa partizione, al mondo mediale dei fumetti.
Le sue ultime opere, presenti in mostra, due dalla serie Spiriti della calce (2021), ricordano l’idea della sinopia, dello strato preparatorio all’immagine, il luogo da cui essa affiora. Si danno in forma fantasmica, come traccia, segno labile e larvale, origine dell’immagine dal substrato materiale: il senso nasce dalla materia. Queste icone ricordano la Veronica o Narciso, “eroi della specularità”1. Il doppio che si dà smaterializzandosi, l’immagine che si dà come pura evocazione, segno dell’invisibile.
1 Gottfried Bohem, cit.
Collage, decollage, re-collage
catalogo Re-collage, Galleria Daniele Ugolini, 2007
Marco Senaldi
Negli anni Settanta, il videoartista americano Peter Campus realizzò un video della serie Three transitions, veramente particolare. Si vede l’artista ripreso in primo piano che si ricopre il volto con una pasta colorata. L’azione potrebbe ricordare molte performance di quel periodo, in cui gli artisti impiegavano il proprio corpo quasi come un materiale, una tela da dipingere o della pasta da scolpire – ma in questo caso c’è una sorpresa. Man mano che Campus si spalma, il suo volto scompare, come se fosse inghiottito dallo sfondo del video. Il trucco diventa abbastanza evidente col passare del tempo: il colore con cui l’artista si ricopre è un blu chromakey utilizzato in tv come effetto speciale per creare falsi fondali; ma le sorprese non sono finite. Anziché limitarsi a sparire, il volto di Campus rivela un’altra immagine sotto di sé – solo che l’immagine che piano piano emerge sotto il viso è, di nuovo! il viso di Campus.
Il volto, sembra dirci Campus, questa epitome dell’anima umana che ha costituito per secoli il principale oggetto della rappresentazione artistica, è cambiato. Da secoli, gli artisti, per ritrarre un soggetto, lo hanno guardato in viso – e per autoritrarsi si sono osservati in uno specchio. Ma dopo la fotografia, il cinema e il video, hanno iniziato a guardare qualcos’altro – immagini, schermi, monitor. Dopo questo diluvio di icone, non solo lo sguardo artistico è cambiato – ma è cambiato in qualche modo anche l’oggetto di quello sguardo. Invece di vedere un volto come qualcosa di naturale, bello o brutto, caratteristico o anonimo, siamo costretti a guardare talmente tante facce che tratti si sovrappongono a tratti, occhi a occhi, nasi a nasi, in uno sfogliarsi e uno stratificarsi incessante che ha tolto per sempre al viso la sua pace, lo ha reso (come diceva Duchamp) definitivamente non-finito. La stessa pratica, sempre più diffusa, della chirurgia estetica, più che un avvicinamento ad un impossibile ideale di bellezza, non è forse figlia di questo nuovo disordine estetico, di questo ribaltarsi, scomporsi, sfilacciarsi di figure, forme, apparenze s sembianze?
Così oggi, l’unica operazione che sembra possibile praticare è una specie di contro-chirurgia artistica: un paziente scollamento, una dissezione quasi anatomica delle icone che hanno sepolto l’enigma originario del viso.
Il lavoro di Leonardo Pivi si inserisce esattamente in questo contesto. In parallelo al suo impegno più noto nelle opere musive, Pivi ha sviluppato, con la stessa tenacia e la stessa pazienza, una tecnica particolare che solo apparentemente può essere ricondotta al classico collage.
Il collage, questa tecnica tipicamente modernista, estensione diretta del montaggio cinematografico, è nato con le avanguardie storiche proprio come arte combinatoria in reazione al diffondersi incontrollato delle immagini riprodotte. Come non ricordare in proposito la serie di collage Une semine de bonté di Max Ernst, in cui vecchie stampe popolari ottocentesche rivelano il loro versante onirico e sconcertante? Ma negli anni 60 e 70 – cioè gli stessi anni del video Three Transitions di Campus – il collage, come giustapposizione di elementi visivi eterogenei, non costituisce più una reazione artistica adeguata. E’ in quest’epoca che nasce il de-collage, cioè una tecnica in cui si parte da un’immagine unica che viene scollata da se stessa, evidenziando la sua struttura soggiacente. Artisti come Rotella, Hains, Villeglé, non si limitano più ad avvicinare frammenti iconici disparati, ma, a partire da immagini forti, ne mostrano lo sfaldamento intimo, lo sbucciarsi delle epidermidi visive, come nei celebri de-collage dei manifesti pubblicitari cinematografici di Mimmo Rotella.
Oggi il collage e il suo analogo inverso de-collage paiono però mezzi fuori moda, troppo deboli rispetto alle potenzialità degli strumenti elettronici – in cui la tecnologia cut-‘n-paste (letteralmente taglia-e-incolla) ha chiaramente soppiantato forbici e colla, relegando questi strumenti in una sorta di limbo del modernariato.
Eppure, come ha dimostrato Pivi, nel suo lungo percorso di recupero del mosaico – una tecnica data per defunta e confinata nell’artigianato artistico – talvolta anche le tecniche più obsolete, se attentamente recuperate, possono diventare strumenti inaspettatamente rivoluzionari. Nel suo ciclo sulle copertine dei rotocalchi (2005?), ad esempio, Pivi ha insertato piccoli frammenti a mosaico all’interno delle copertine reali. Il mosaico lì funzionava proprio come un elemento eterogeneo “incollato” all’interno di un contesto tradizionale – di più, a essere trasformati in mosaici erano di solito volti famosi, “da copertina” appunto, mosaici di volti costruiti sopra fotografie di volti (non diversamente che nel video di Campus).
Nella serie di opere qui presentate, dunque, Pivi riprende un itinerario già iniziato altrove; ma la novità è che qui riutilizza proprio il “vecchio” collage dandogli un valore inedito, come espediente fisico di intervento chirurgico sul derma delle immagini. Qui, fotografie di volti si sovrappongono a fotografie, corpi di immagini si innestano su immagini di corpi, e il risultato è stranamente fisico, ha uno spessore tangibile che non può non colpire.
Al di là del collage e del decollage, questi volti perversamente polimorfi di Pivi sembrano dei collage di collage, dei collage alla seconda potenza dove le stesse cose, le stesse figure, una guancia qui, un sopracciglio là, un orecchio da un’altra parte, ritornano quasi germinando l’una dall’altra come una ritorsione inversa delle icone su se stesse.
Re-collage è il termine che spetta di diritto a questa tecnica, qualcosa che è insieme un recupero di uno strumento esistente – e il suo radicale remake, il suo innovativo rifacimento, l’imitazione che da dentro ne stravolge il senso.
I ritratti a re-collage che Pivi ha realizzato, dunque, non rappresentano più solo ciò che è divenuto il viso dell’individuo contemporaneo, ma incarnano “la vera faccia” della contemporaneità come tale, il volto – e insieme la maschera – con cui il nostro tempo si presenta e si nasconde davanti ai nostri occhi.
Il Visionario Virtuoso
Impackt, Numero 2/2006
Marco Senaldi
Intervista a Leonardo Pivi, artista visionario che ha fatto dell’antica e ardua tecnica del mosaico lo strumento per incursioni nel mondo del quotidiano.
Il lavoro di Leonardo Pivi (Riccione 1965) è difficile da catalogare. Emerso nei primi anni Novanta, ha attraversato varie stagioni creative, prima di raggiungere una sorta di equilibrio dimostrato dalla produzione dell’ultimo periodo. Questo equilibrio è il frutto di una difficile sintesi tra orientamenti diversi: il ritorno alla pittura, sfociato nel cosiddetto “realismo nevrotico”, da un lato, e il revival del classicismo più desueto, tipico di un certo citazionismo, dall’altro.
L’arte di Pivi è passata attraverso un lungo cammino, reso accidentato da queste trappole, ma è riuscito a salvare gli elementi più elevati e insieme la capacità di scendere nel cuore della realtà odierna e di estrarne una verità genuina. L’opera di Pivi non è definibile in modo univoco – si spazia da galline teratomorfe in marmo bianco, a stravaganti totem di dimensioni lillipuziane incisi su sassolini o su pietre dure, da microsculture-gioiello in oro e pietre preziose, a pannelli a mosaico di enormi dimensioni raffiguranti schermate del web (come per l’opera pubblica collocata alla fermata Bovisa della metropolitana milanese), a micromosaici realizzati con l’antichissima tecnica dell’opus vermiculatum di ascendenza romana, le cui tessere non superano i pochi millimetri di grandezza – micromosaici che poi l’artista si diverte a incastonare nelle copertine di rotocalchi o in confezioni di merci. Si tratta dunque di un’opera caratterizzata da un bagaglio tecnico notevolissimo, acquisito in anni d’esperienza, che però non scade mai nel virtuosismo fine a se stesso – il che fa di Pivi, viceversa, un artista virtuoso, che non si trincera nell’abilità manuale ma non teme di confrontarsi con i temi più scottanti dell’attualità.
E’ proprio tramite questa intersezione di realtà tanto diverse – un’opera di raffinatissima ed esclusiva fattura, che rifà le icone di merci prodotte in serie o le immagini stampate in milioni di esemplari sulle pagine dei quotidiani – che Pivi ci regala una dimensione inedita, tante volte inseguita dall’arte dei giorni nostri, quanto raramente conseguita. Questa dimensione esiste, Pivi ce ne consegna le prove materiali, e non dovremmo avere timore di definirla una nuova classicità antitradizionale.
Micromosaico, pittura, marmo, persino gioielli e oro, la tua creatività non conosce limiti, e spesso ti sei cimentato con tecniche “difficili”. Qual è la tua formazione, sia tecnica che artistica?
In giovane età, seppur per brevi periodi, ho fatto esperienze lavorative pesanti come il facchino, il metronotte, l’operaio di pulizie industriali. Dopo numerose vicissitudini sono approdato ad un’importante opportunità lavorativa, collaborare con una ditta di restauro di beni culturali. Per alcuni anni a Ravenna ho avuto il privilegio di salire sulle impalcature dei cantieri di alcuni monumenti importantissimi e di poter osservare e intervenire su manufatti antichi di svariata origine, quali affreschi, dipinti a olio, stucchi, lapidario, pitture lignee. Oggi posso dire che quel periodo, seppur breve, ha contribuito in maniera decisiva alla mia formazione tecnica. Nei primi anni Novanta, grazie a quell’esperienza, ho sviluppato una particolare avidità nell’analizzare e controllare attentamente il materiale su cui intervenire.
Come artista ho cominciato alla fine degli anni Ottanta a fare le mie prime mostre a Bologna, città in cui studiavo presso l’Accademia di Belle Arti e dove ho avuto il piacere di esporre presso la galleria Neon, vivendo, tra l’altro, molti eventi rilevanti insieme ad artisti amici della mia generazione, che oggi sono molto affermati.
Nelle tue opere si riscontra la voglia di mescolare tecniche e materiali assolutamente eteìrogenei (penso alle “copertine” con interventi a mosaico) – come arrivi alla definizione di un’opera, qual è il processo mentale che segui?
Sono un visionario, di continuo sogno ad occhi aperti, appena ho un’idea interessante da sviluppare comincia a galleggiare sulle altre in maniera ossessiva, nasce così un periodo di riflessione dove le mie idee rimangono nel limbo, come ibernate, a volte anche per anni.. Il lavoro delle copertine è nato in maniera molto articolata. L’idea iniziale prevedeva di realizzare piccoli interventi tautologici con tecniche svariate, quali micromosaici sagomati, sculturine, piccoli quadri ad olio, sbalzo ecc. Poi ho pensato al supporto in cui ambientare questi microinterventi preziosi – e la carta “usa e getta” dei quotidiani mi sembrava prestarsi bene al cortocircuito. Solo all’indomani della prima rivista fatta, ho appurato con sorpresa che il cartaceo, rinnovandosi continuamente, suggerisce interessanti tematiche da sviluppare, così ho cominciato a costruire micromosaici calibrati su misura, partendo appunto dalla ricerca dell’immagine ad hoc. Nel lavoro delle copertine ricerco ovunque mi trovi immagini per affinità di tematica, penso a quelle con personaggi mascherati, ai miti del cinema, dello sport, della politica, ecc. Non ti nascondo il mio entusiasmo quando dal giornalaio scopro un’immagine che ha i requisiti per poter essere sviluppata. I processi mentali a volte sono difficili da decifrare, perché quando cambio tecnica cambia anche il mio approccio mentale, comunque cerco di sottomettere le mie idee alle tecniche, mai il contrario. Da tanti anni evito di costruire il lavoro attraverso la seduzione e bellezza dei molti materiali che conosco, anzi a volte cerco di sforzarmi e di considerare quelli che per mia natura sento meno, che però possono rivelarsi ottimi per i miei scopi.
Qual è l’elemento scatenante che mette in moto le idee e ti permette di raggiungere il risultato voluto?
Tempo fa avrei risposto “il mio stile di vita”; sono un´amante di situazioni forti e suggestive che possono stimolare la mia fantasia: battute di caccia e pesca, o passeggiate romantiche, andar nei boschi a raccogliere funghi, tartufi, erbe e bacche selvatiche. Oggi purtroppo non ho più tempo per vivere la natura come vorrei quindi anche il mio lavoro ha dovuto trovare altri stimoli.
Penso che il risultato di un’opera riuscita bene è un dato certo che si affina negli anni. L’esperienza non basta mai, ma avere grande esperienza significa avere certezza di risultati.
Il fascino dei capolavori in arte è celato dietro l’immagine, parlo di pratiche delicatissime ed empiriche, spesso alchemiche e dei rischi annessi. Durante le complicate fasi di lavoro l’imprevisto è sempre in agguato, a volte mi sento come un pilota di Formula Uno che parte e non sa se arriva; può accadere di tutto, prima la pioggia, poi il sole, allora devi cambiare gomme, stile di guida ecc, poi ritorna la pioggia e di nuovo devi adattare il lavoro a nuovi imprevisti, ai cambiamenti, perché il rischio è enorme, sbagliare o andare fuori strada, un lavoro sempre col fiato sospeso.
Che rapporto hai con il mondo contemporaneo, che cosa ti colpisce in un’immagine al punto da trasformarla in un’icona bizantina?
Anche se può sembrare assurdo, il mosaico ha valenze contemporanee e antiche al tempo stesso. Il fattore tempo è molto importante nell’opera musiva, mentre al confronto la tecnica della pittura, nei secoli, si è accelerata spaventosamente. Per rendere l’idea pensa alla frustrazione di Tiziano nel constatare che il suo allievo Tintoretto eseguiva diversi ritratti al mese e a lui non bastava un anno per realizzarne uno… Cambiando sistema operativo si modifica la struttura della forma, la consistenza degli impasti di colore, la velocità della pennellata.
Altro fattore determinante che aumenta il divario tra tempo pittorico e tempo musivo è l’analisi formale; il colore a olio fu un’invenzione studiata appositamente per indagare il microcosmo in
maniera ancor più analitica dell’affresco, invece la tessera musiva è un’entità geometrica astratta che obbliga l’artista a considerare l´immagine in termini di sintesi formale. Aggiungo anche che l’artista che dipinge oggi fatica a costruirsi un suo ben definito immaginario, le botteghe non esistono più, molto si è perso e questo ha complicato il mestiere, il pittore di oggi, solitamente non riesce a sganciarsi dall’immaginario fotografico o cinematografico. Nel mosaico quindi l’effetto finale è più trasformante e permette di trasfigurare l’identità di figure e cose, la tecnica è in grado di iconizzare tutto.
Che rapporto hai con le merci? Che genere di consumatore sei?
Sono un consumatore molto distratto e incosciente, per esempio scambio lo sciroppo per la tosse per un digestivo o il detersivo dei piatti per lo shampoo.
Solitamente le pubblicità non fanno presa su di me come consumatore – come artista sì, infatti sono sempre molto attento nell’osservare i mega-cartelloni che invadono le città, a volte mi fermo a guardarli con attenzione. Amo più il contenitore del contenuto, però non è una regola, sicuramente con le merci ho un rapporto conflittuale.
Cosa significa per te la “delizia”?
Credo che la delizia sia uno stato di benessere in cui si può trovare la nostra mente, un valore emozionale puramente soggettivo. Siamo tutti più ricettivi verso i sapori forti, gli odori penetranti, le musiche a tutto volume, le sgasate dei motori, l’odore del tartufo, la cioccolata, ma per me la più autentica delizia è una sensazione che scaturisce da delicatezze quasi impercettibili, ad esempio trovo piacevole respirare a pieni polmoni la prima aria del mattino appena entro in un bosco per assorbire umori d’ogni tipo, mi piace in particolare l’odore di mandorla amara di alcuni funghi non commestibili, oppure il profumo delicato dei fiori d’acacia. Sensazioni che in città non puoi respirare. O ancora poter osservare l’altissima qualità pittorica nei quadri di alcuni grandi maestri, come ad esempio La fanciulla con l’orecchino di perla di Vermeer, la delizia in questo caso è data dal tocco magico, sapiente e soprattutto delicato del grande pittore.
Che rapporto hai col packaging, con l’involucro delle merci e degli oggetti in genere?
Sono per me materia costante di studio, mi è successo anche di recuperare negli scantinati merci prive di valore commerciale, in realtà però difficilmente riesco a lavorare su quello che raccatto, forse è una sorta di collezione che utilizzo per stimolare la fantasia, un desiderio di possesso utilissimo. Da ragazzo in campeggio durante un’escursione, in Trentino, ricordo di aver trovato una scatola di fagioli della prima guerra mondiale ancora intatta, lo stesso giorno trovammo anche diversi ordigni inesplosi, così i nostri istruttori purtroppo non ci fecero portare nulla a casa – però quella scatola di fagioli mi è rimasta in testa, non so cosa darei per avere ora quel cimelio da mettere in una teca e contemplare.
La cronaca e l’emblema
catalogo Corpo estraneo, Galleria Astuni, 2004
Marco Senaldi
La guerra delle immagini
Nell’attuale dibattito politico internazionale, e in particolare nelle polemiche intorno all’intervento americano in Iraq, un peso preponderante è stato attribuito alle immagini e al loro controllo.
L’uccisione dell’ostaggio italiano Fabrizio Quattrocchi è stata ripresa in un video, che tuttavia non è mai stato trasmesso dalla tv araba Al Jazeera perché ritenuto troppo crudo; in compenso, i terroristi stessi hanno realizzato e divulgato le riprese dei suoi tre compagni, di recente liberati, per usarle come arma di pressione psicologica contro i suggestionabili governi occidentali. Non si sono viste molte immagini di scontri armati; tuttavia, sono rimaste indimenticabili le riprese televisive dei soldati statunitensi che abbattono le statue di Saddam Hussein –– mentre la folla applaude al crollo e lancia insulti contro quelle che erano a loro volta vere e proprie icone. D’altra parte, le immagini delle bare dei caduti americani, drappeggiate con la bandiera a stelle e strisce, hanno sconvolto l’opinione pubblica degli Usa, benché in quel paese tutti fossero informati del fatto che, dopo la fine delle operazioni di guerra dichiarata nel marzo 2004, avessero perso la vita in attentati e imboscate molte centinaia di marines. Infine, come è noto, la credibilità degli Usa e l’esito stesso della guerra in Iraq hanno subito un duro colpo dalla divulgazione delle immagini di torture inflitte a prigionieri islamici dalle forze di “liberazione”. Non si tratta di una novità, naturalmente: basterebbe ricordare le polemiche sul video della cattura degli ostaggi italiani durante la prima guerra del Golfo (1991) – o, viceversa, l’assenza pressoché totale di copertura video del genocidio del Ruanda (1994) – e, più indietro, l’importanza strategica dei servizi televisivi durante la guerra del Vietnam (o ancor prima il ruolo dei cinegiornali durante la Seconda Guerra Mondiale) per capire come la questione non sia più solamente quella delle “immagini di guerra” – ossia la presenza o meno dell’apparato mediale per riprendere, comunicare o raccontare un conflitto – ma sia quella della “guerra delle immagini”, ossia il fatto che una parte del conflitto viene combattuta direttamente a forza di icone che hanno il compito di manifestare, spiegare, evidenziare, ma anche disturbare, sconcertare, colpire.
Che cosa stai guardando?
Nonostante il fatto che questa situazione abbia suscitato i commenti degli esperti di comunicazione, dei sociologi, degli strateghi militari e politici, è strano che nel dibattito non sia mai intervenuto un critico d’arte o un artista, cioè chi le “immagini” le interpreta o le crea. L’attenzione pubblica è invece stata dirottata sull’opportunità o meno di rendere pubbliche determinate immagini, fino alla presa di posizione di Baudrillard secondo cui “il problema è indecidibile”.
Ciò che è in realtà indecidibile è questa stessa alternativa, ovviamente falsa; il problema autentico non è infatti “cosa è lecito (far) vedere”, ma: “che cosa stiamo effettivamente guardando?”. Se consideriamo le immagini di un video raccapricciante, come quello della decapitazione di un ostaggio civile americano da parte di un gruppo estremista islamico, eccoci di fronte a un tipico enigma: non solo perché è difficile stabilire se il video sia autentico, ma anche perché di esso sono state diffuse versioni molto diverse che producono reazioni molto differenti – così, la versione sgranata e discontinua reperibile in rete è molto angosciante, ma meno icastica delle immagini fisse tratte dal video stesso e pubblicate senza remore da tutti i quotidiani del mondo; il suo passaggio (montato, tagliato e commentato) durante un telegiornale ha un sapore e un senso diversi dalla sua visione integrale, fuori contesto e col sonoro originale. Per questo occorre chiedersi sempre: che cosa stiamo realmente vedendo? Elementi come la definizione dell’immagine, il contesto in cui è inserita, le condizioni in cui è percepita, sono essenziali tanto quanto il contenuto.
Prima pagina e facciata
Il fatto è che le immagini, come le testimonianze storiche, sono sempre autentiche, perché anche quelle manipolate rivelano, a chi sa intenderla, l’intenzione del censore, e pertanto non sono meno veritiere di quelle integrali e non manomesse. Inoltre, le immagini non sono mai sole, cioè non sono isolabili dal contesto che le circonda, anche se questo contesto non è iconografico.
La famosa opposizione immagine/parola va rivista in tal senso. In effetti, ciò che facciamo di fronte alle copertine dei tabloid o alle prime pagine dei quotidiani, non è guardare le immagini da un lato e leggere i titoli dall’altro; ciò che facciamo è afferrare un insieme di finestre, di riquadri, di caratteri e di icone che costituisce un’architettura complessa di immagini-parole. Il nostro paesaggio mentale è sempre più affollato di costruzioni virtuali, il nostro computer è fatto di “porte” e “finestre” (windows), in internet incontriamo “accessi” e “portali”, e la stessa urbanistica reale sembra invidiosa della costruzione tipografica e sui palazzi in restauro dominano pubblicità che paiono pagine da rotocalco ingrandite a scala gigante.
“Prima pagina” e “facciata” si scambiano i ruoli e ridefiniscono il mondo in cui “abitiamo” e che “guardiamo”. Frammenti di immagini, riprodotte, esplose, ritoccate, tagliate, si intersecano nel paesaggio e costituiscono le “armi di convinzione di massa” da cui veniamo “bombardati”.
Sulle prime pagine dei giornali compaiono spesso fotogrammi tratti da video, ma nelle “edicole” dei telegiornali, è la tv a prendere in prestito le prime pagine dei quotidiani e le copertine dei settimanali. Schermi, prime pagine, cartelloni pubblicitari sono altrettanti luoghi strategici dove si combatte quotidianamente la vera e interminabile “guerra delle immagini” – perché è lì, in quei pochi, ma potenti, decisivi, centimetri quadrati di carta, che deve distillarsi un pensiero, un’opinione, un’idea: il Nemico decapita l’Amico, il Capo che ci guida è sicuro, la Bellezza è (ir)raggiungibile, la Morte è vicina, questo sarà il tuo Totem…
Mosaico estemporaneo
Il lavoro di Leonardo Pivi, in questo preciso momento storico, costituisce una riflessione estremamente cogente e stringente intorno a questo dato di cose. Mediante una indiscussa abilità d’occhio e di mano, che gli permette una disinvoltura senza eguali nell’impiego del linguaggio musivo, Pivi sa trasformare l’icona più banale in un fregio che pare appartenere ad altre epoche e ad altri mondi.
La trasformazione delle immagini di copertina di settimanali, rotocalchi, quotidiani, in micromosaici, oltre a vincere una sfida in termini di pura e semplice “bravura”, converte l’effimero in eterno, il banale in eccezionale, lo scarto in reliquia. Tuttavia, gli effetti di questo cambiamento non si esauriscono in un passaggio dal transitorio al duraturo, ma implicano la messa in gioco degli elementi chiave dell’immagine. Quando una piccola icona giornalistica viene “tradotta” in un micromosaico, accade che il problema della “bassa” o “alta” risoluzione acquisisca un altro senso: l’immagine è insieme scomposta e ridefinita, perché è il parametro stesso in base a cui se ne giudica la qualità ad essere improvvisamente cambiato. Benché un “punto” di stampa (il famoso dot per inch, meglio noto come dpi) sia molto più piccolo della più piccola tessera di mosaico, quest’ultima ha il potere di “pietrificare” un colore, una sfumatura, una linea. Il magico potere pietrificante del mosaico, tramuta una questione di dimensioni spaziali in un problema di qualità visive e impone una riflessione su qualcosa che normalmente diamo per scontato.
Ma il lavoro di Pivi possiede anche una ulteriore sottigliezza: infatti l’artista non trasforma l’intera prima pagina in un mosaico, ma solo un’immagine centrale. Ne risulta così un oggetto ibrido fatto di parole/immagini che, pur conservando la fragilità della rivista, acquista l’autorità e lo spessore di un emblema.
Questa realtà ibrida rispecchia fedelmente la nostra condizione di fruitori e di vittime della “guerra delle immagini” – da un lato sempre travolti da un susseguirsi di immagini che si sovrappongono senza pausa; dall’altro sempre inclini a rendere omaggio al mito di turno come se fosse l’unico e l’ultimo.
Ecco: ciò che riesce ai mosaici di Pivi è immortalare come in un frammento di antico pavimento romano facce di premier, animali estinti, volti rifatti di rockstar, o persino opere d’arte, trasformando la nostra inutile e stucchevole Cronaca, miracolosamente e per sempre, in una scheggia di Storia.
Per ricominciare
Il lavoro di Pivi nasce da una inclinazione verso il meticciato espressivo, l’incrocio formale, il gusto barocco per il bizzarro, sostenuto da una perfetta padronanza dei mezzi linguistici impiegati, che si tratti di pittura, di scultura, di mosaico, o che i materiali in gioco siano pietra, tessere musive, o metalli preziosi, come nel caso di particolari gioielli realizzati dall’artista. Quello di Pivi è un complicato universo di segni, dove si mescolano pinocchi sofferenti e idoli di sapore azteco scolpiti su pietre dalle dimensioni lillipuziane, teste di mucca dagli occhi di smeraldo, oppure icone mediali, come Sofia Loren o Mike Tyson, inaspettatamente nobilitate da mosaici che li rendono simili ad antichi condottieri ellenistici.
All’interno di questo mondo, le riviste realizzate con l’antica tecnica dell’opus vermiculatum (micromosaico) occupano un posto di rilievo.
Esse costituiscono una riflessione profonda sul ruolo strategico delle immagini nella nostra società e sul loro uso bellico, economico, o anche semplicemente estetico – ma non solo.
Infatti, “solidificando” il flusso indistinto di figure, forme, apparenze, sembianze, rappresentazioni, che ogni giorno, quotidianamente, implacabilmente, le armate massmediali ci rovesciano addosso, in qualche misura ci forniscono un antidoto, che consiste nel soffermarsi sul “male”, anziché tentare sbrigativamente di liberarsene, come faremmo regolarmente con un vecchio giornale.
FRAGILI ANNI NOVANTA
catalogo Terra bruciata, 2014
Marco Senaldi
Caro Leonardo, ci conosciamo da anni, ma non abbiamo mai parlato dei tuoi esordi, all’inizio della tua carriera artistica. Qual è il motivo per cui tu sei diventato artista? Avevi qualche conoscente che è stato d’esempio, o ci sono stati dei personaggi che ti hanno particolarmente influenzato?
Nella vita succedono delle cose che in principio avvengono senza quasi senso. Poi, quando cominci a scavare nei ricordi, ti accorgi che le cose accadono misteriosamente, non so se per vocazione, per attitudine o per predisposizione naturale. Nel mio caso è scattato qualcosa molto presto; ho vivi ricordi di quando, a quattro o cinque anni, amavo perdere le giornate a disegnare per terra con la pancia a contatto del pavimento. Disegnare mi piaceva tantissimo, non solo cose di fantasia, ma anche le figure che vedevo, ad esempio Paperino e Topolino dai fumetti. A scuola quando la maestra faceva le lezioni sull’alfabeto abbinando le immagini alle lettere, mostrando alla lavagna l’ape, la casa, l’albero, l’imbuto, mi ricordo che per il compito a casa, più che a riscrivere le lettere dell’alfabeto, mi divertivo a rifare le immagini. Poi ho fatto un percorso come tutti i ragazzi delle scuole medie, serbando il desiderio di non perdere di vista il disegno; in questa fase delicata della mia vita ho avuto anche la fortuna di avere dei genitori stupendi che non mi hanno forzato, e mi hanno incoraggiato ad iniziare studi specificatamente artistici. Così, mi sono iscritto prima all’Istituto d’Arte per il Mosaico di Ravenna, e poi all’Accademia di Belle Arti.
L’Accademia di Bologna?
Sì. Ho fatto il primo anno a Ravenna, poi, assieme ad alcuni amici molto affiatati, prendemmo la decisione di spostarci verso una realtà diversa. Tutti sentivamo la necessità di cambiare aria, di spostarci in una città che potesse darci stimoli nuovi. Io, con Alessandro Pessoli, Gianfranco Beghi, e poi Valerio Gaeti, abbiamo deciso di prenderci una casa e abbiamo vissuto quattro anni insieme. Lì abbiamo conosciuto altri artisti bolognesi, con i quali abbiamo istaurato un rapporto di amicizia, come Eva Marisaldi, Pierpaolo Campanini, Cuoghi e Corsello. C’era anche Maurizio Cattelan, anche se con lui c’era una conoscenza indiretta, lo incrociavo perché frequentava Alessandro.
Io orbitavo soprattutto su Milano, ma ricordo bene che la Bologna di quegli anni, fra la fine degli Ottanta e il decennio successivo, era davvero un luogo di grande fermento artistico, ma anche di sperimentazione abbastanza spensierata, senza l’ossessiva preoccupazione del mercato. Tu, quando hai veramente capito che quella dell’artista era la tua strada?
La consapevolezza di cominciare un cammino artistico, con un linguaggio mio, personale, l’ho maturato sicuramente l’anno in cui ho finito l’Accademia, nel 1988. Nell’estate di quell’anno mi sono accorto che io ed Alessandro eravamo continuamente in contatto, lavoravamo giorno e notte, disegnavamo, ci confrontavamo, vedevamo continuamente il lavoro che cresceva giorno per giorno.
Ma riuscivi già a mantenerti come artista o facevi altri lavori?
In quegli anni facevo anche il restauratore per motivi di sostentamento; ma ero arrivato al punto di impegnare le mani, la mente, gli occhi, per 16 o 18 ore al giorno perché, dopo essere stato tante ore sulle impalcature dove facevo i restauri, arrivavo a casa e continuavo a lavorare sulle mie cose fino a tarda notte. Questo è andato avanti per alcuni anni. Poi, a un certo momento non ce l’ho fatta più: davanti al bivio tra il restauratore e l’artista ho deciso di scegliere a tempo pieno il mio lavoro. Ero anche un po’ spinto dal fatto che iniziavamo a esporre in alcune mostre, organizzate da critici di Bologna come con Roberto Daolio. Una delle prime mostre che mi ricordo, curata da Daolio, si intitolava Via Crucis, allestita dentro un tunnel ferroviario di San Marino, che mi sembra di ricordare fosse chiuso dal 1945, e aperto per l’occasione di quella mostra a cui parteciparono praticamente tutti i bolognesi, da Eva Marisaldi a Pessoli, a Cattelan, mi pare anche Cuoghi e Corsello. Fu una bellissima mostra che ci diede visibilità anche nei confronti di altri critici, giovani come Claudia Colasanti, Guido Molinari, o meno giovani come Renato Barilli. Questa fu sicuramente una delle prime mostre che segnò l’inizio del nostro percorso, assieme al ciclo di mostre organizzate alla galleria Neon di Gino Gianuizzi.
Tenuto conto dell’evoluzione del tuo lavoro, sempre estremamente attento alla elaborazione materiale del pezzo, trovi che la tua iniziale esperienza come restauratore in qualche modo abbia avuto un influsso sul tuo approccio artistico?
È stata un’esperienza meravigliosa durata circa quattro anni, in cui ho avuto l’occasione di poter lavorare su materiali diversi, dal lapideo, all’affresco, ad alcune riprese su soffitti lignei. Ho fatto pochi restauri di mosaico, però, essendo molto spesso sulle impalcature delle chiese, ho avuto la possibilità di ammirare i mosaici molto da vicino, e questa è stata sicuramente un’esperienza determinante.
Si potrebbe dire che il contatto con l’opera è taumaturgico, guarisce dalle incertezze artistiche…
Il restauro ti impone di guardare le opere e di intervenire su di esse in una maniera molto distaccata, perché non devi entrare assolutamente in un coinvolgimento emotivo. Però dal punto di vista scientifico sicuramente ho avuto la possibilità di conoscere materiali, strumentazioni, e di fare anche molte riflessioni su problematiche che dovevo comunque sempre risolvere.
Tornando a Bologna, dopo Via Crucis, hai tenuto la tua prima personale alla Galleria Neon…
Sì, la mia prima mostra personale si intitolava Anima mangia Anima ed era curata da Roberto Daolio. Avevo installato in galleria le mie prime sculturine che facevo su queste piccole pietre. Da lì incomincia il mio viaggio, anche se prima, all’Accademia di Bologna, con Concetto Pozzati, avevo seguito un percorso parallelo sulla pittura, sul segno e su un immaginario personale molto più onirico legato al sogno.
Ma allora un personaggio influente l’abbiamo trovato, Concetto Pozzati! Ti interessa raccontare qualcosa di lui?
Concetto è stato un grande insegnante perché metteva in relazione il mio lavoro con quello dei grandi maestri, che io allora conoscevo ancora molto poco. Cercava di mettermi sulla stessa lunghezza d’onda, per affinità d’immaginario, alle grandi figure della storia dell’arte, come Scipione, Redon, Gustave Moreau, Goya, gli onirici e i visionari, tutti artisti che lui cercava di farmi conoscere attraverso le loro opere, per metterle in sintonia emotiva con quello che stavo facendo. E poi mi ricordo le sue preziosissime lezioni nell’aula magna su tanti autori del Novecento. Con queste lezioni dava energia e stimoli per aiutarci a credere in quello che stavamo facendo. Io non credo che sia casuale questa fioritura, questo exploit bolognese di tanti ragazzi dello stesso corso accademico che poi hanno avuto importanti riconoscimenti, come Campanini, Marisaldi Pessoli, Cuoghi e Corsello…
Vorrei tornare per un attimo con te un po’ indietro nel tempo, vorrei soffermarmi su alcuni aspetti di quegli anni Novanta, perché ho come l’impressione che siano stati un momento epocale per l’arte italiana, ma che forse non ce ne siamo accorti – lasciando che la memoria di quel geniale fermento si appiattisse su due-tre nomi emersi a livello internazionale, che invece erano solo la punta di un iceberg molto più vasto – un iceberg che però, ahimè, abbiamo lasciato andare alla deriva. Io ricordo che nell’89 avevo messo piede per la prima volta a Flash Art, si percepiva un vasto ronzìo internazionale, un’attenzione rivolta in tutte le direzioni. Sembrava di essere all’inizio di una fantastica avventura e tutto pareva possibile. E a Bologna come si stava?
In quegli anni eravamo totalmente fuori dall’era informatica, internet non c’era, e le relazioni erano fatte ancora di messaggi scritti. Io mi ricordo che, se appena qualcuno di noi vedeva qualche mostra interessante, di un autore che potesse racchiudere qualche curiosità o informazione che poteva essere utile, subito ci spedivamo una lettera o una cartolina con sopra scritto: io sono qua nel tal posto, ho visto questo lavoro e ti ho pensato. Ricordo che andavamo spesso in una casa, sopra Marzabotto, di Francesco Bernardi.
Francesco me lo ricordo anch’io, era il compagno di Eva Marisaldi in quel periodo, e faceva l’artista…
Esatto. Lui aveva questa casa nell’Appennino tosco-emiliano, in un posto bellissimo immerso nella natura, una casa senza la serratura – all’epoca si potevano ancora lasciare incustodite le abitazioni senza pericolo – e ricordo che spesso passavamo dei fine settimana assieme, si mangiava, si beveva e si parlava dei progetti d’arte che volevamo realizzare.
E Bologna? Nella geografia dell’arte dell’epoca, Roma praticamente non esisteva, Torino aveva espresso il meglio negli anni Sessanta e Settanta, gli anni Ottanta e Novanta li ricondurrei a Milano e a Bologna.
Sono d’accordo, forse bisogna riconoscere il merito a Renato Barilli per aver avuto la capacità di far gravitare in quegli anni tutto attorno ad un certo ambiente bolognese, anche con diverse mostre importanti.
Nuova officina bolognese?
Mi sembra che quella fu curata da Roberto Daolio, ma non sono sicuro [fu curata da un comitato composto da Daolio, Guadagnini e Trento, N.d.R.]. Nell’ambiente ci si conosceva un po’ tutti, si andava alle inaugurazioni, alle feste, e poi a visitare gli studi; per noi artisti giovani appena diplomati era importante frequentare certi contesti. Ricordo di aver fatto visita a Pirro Cuniberti, a Piero Manai, allo stesso Pozzati. A Bologna c’era una bella energia che a mio avviso era portata anche da molte persone che all’inizio degli anni Novanta erano arrivate da altre realtà del nord prevalentemente per studiare e si erano poi fermate a Bologna.
Leonardo Pivi
marzo 2010
Marco Senaldi
Il lavoro artistico di Leonardo Pivi nasce da una inclinazione verso il meticciato espressivo, l’incrocio formale, il gusto eclettico per il bizzarro e l’inusitato, sostenuto da una perfetta padronanza dei mezzi linguistici adottati. Infatti, che si tratti di pittura, di scultura, di mosaico, o che i materiali in gioco siano pietra, tessere musive, o metalli preziosi (come nel caso di particolari gioielli realizzati dall’artista), o persino elementi naturali come ossa, piume, nidi d’uccello – o viceversa oggetti tecnologici come led luminosi, non fa differenza: tutto viene piegato all’esigenza espressiva dell’artista.
Il risultato è un complesso e stratificato archivio di segni, dove – come in una enciclopedia medievale – emblemi e simboli si mescolano incessantemente, pinocchi disarticolati e sofferenti affiancano idoli di sapore azteco scolpiti su pietre dalle dimensioni llipuziane, teste di mucca marmoree dagli occhi di smeraldo finiscono accanto a celebrità dello spettacolo trasformate in insegne musive.
All’interno di questo universo, le opere si dispongono per serie coerenti caratterizzate dall’impiego di determinati materiali e collegate dal riferimento a ben precisi repertori visivi.
Le serie dei primi lavori, in cui compaiono personaggi arcaici, pinocchi lignei come crocefissi romanici, e teste di oranti scolpite su piccoli sassi, sviluppa il versante oscuro e inquieto della ricerca di Pivi.
L’approdo (o meglio il ritorno) alla tecnica del mosaico, ha generato invece nel tempo serie di opere affini ma differenti. Da un lato mosaici di dimensioni importanti, dedicati alle icone mediali del presente, come Sofia Loren o Mike Tyson, inaspettatamente nobilitate da sfarzosi mosaici policromi che le rendono simili alle raffigurazioni degli antichi condottieri ellenistici. Dall’altro, le “riviste”, cioè vere e proprie copie cartacee di rotocalchi intarsiate con mosaici in miniatura realizzati secondo l’antica tecnica dell’opus vermiculatum (micromosaico).
Entrambe le serie costituiscono una riflessione profonda sul ruolo strategico delle immagini nella nostra società e sul loro uso spettacolare, ma anche bellico, economico, o semplicemente estetico; infatti, “solidificando” il flusso indistinto di parvenze, figure, rappresentazioni, che ogni giorno,, implacabilmente, le armate massmediali ci rovesciano addosso, in qualche misura ci forniscono un antidoto, che consiste nel soffermarsi sulle “apparenze”, anziché tentare sbrigativamente di liberarsene, come faremmo regolarmente con un vecchio giornale.
D’altra parte, il lavoro artistico di Leonardo Pivi non è certo riducibile alla sua, sia pur irraggiungibile, bravura come mosaicista. La serie dei Collages, e a seguire, il lungo itinerario dei dipinti, eseguiti con varie tecniche, tra cui l’olio su tavola, sviluppa altresì una critica approfondita della distorsione estetica assunta dalle sembianze della nostra indescrivibile contemporaneità.
In silenzio Religioso
catalogo Terra bruciata, 2014
Vittorio D’Augusta
Un giorno, nell’orto di Ospedaletto, che coltiva con la competenza di un antico contadino e con l’amore per la terra e per il mistero di un monaco tibetano, Leonardo mi disse che sicuramente Dio esiste, altrimenti il virgulto di una pianticina rampicante non troverebbe l’appiglio a tre metri di distanza. Anche la sua ricerca, come quel ramoscello verde, spazia in diverse direzioni e trova sempre quella giusta, quella pertinente ad un’idea di arte che tenga insieme lo spirito della nostra epoca, con le sue icone i miti e i falsi miti, e un’anima arcaica, di sacralità medioevale, ieratica come i mosaici bizantini. Quel luccicare di tessere dorate, quegli sguardi a Sant’Apollinare Nuovo fissi fuori da ogni tempo, devono essere entrati assai presto nell’immaginario di Leonardo, nato a Ravenna, così come le nebbie e le solitudini della Bassona, le ombre della pineta, i relitti che i fiumi e le burrasche di mare consegnano alla spiaggia, rami levigati come avorio, scheletriti come poveri cristi in attesa di pietà. L’eterogeneo repertorio dei suoi materiali riecheggia appunto le differenze e le contaminazioni tra il presente e il passato, tra novità e tradizione, tra la preziosità dei marmi e dei mosaici, e l’umiltà degli oggetti di scarto, plastiche, detriti, ferri arrugginiti, rami secchi, ossa di animali, ai quali dà nuova vita il “saper fare” dell’arte. Un saper fare che non è solamente elevatissima sapienza del mestiere, ma coscienza civile intrisa di umanità, anzi di umana religiosità.
Se c’è un modo, oggi, di fare “arte sacra” – non di fare arte di Chiesa, ma di afferrare quelle ombre di sacro, come enigmi fertili e indecifrabili, che si nascondono nella natura e in ogni uomo – questo modo appartiene all’opera di Leonardo Pivi. Ci vuole un occhio “religioso”, che neppure a me, non credente, è precluso, per accostarsi ai suoi lavori, per comprenderli oltre l’apparenza estetica. Bisogna mettere da parte le troppe teorie che affliggono l’arte contemporanea, le vuote classificazioni, residuati di un pensiero d’avanguardia che, negli ultimi decenni, è diventato post del postmoderno e che sopravvive negli esclusivi club per pochi adepti, colti, ma troppo zelanti e forse interessati sacerdoti del Mercato, i quali, dopo un secolo dal grande Duchamp, ancora credono ai rituali della Provocazione. So che Leonardo condivide questo mio accenno di polemica, perché spesso ne parliamo, e perché da anni, concretamente, con il suo lavoro di pittore e di scultore, intende affermare il valore del “saper fare”, e percorre, sì, i territori della creatività visiva, ampiamente, liberamente, e con sorprendenti risultati, servendosi, quando occorre, delle più avanzate tecnologie, ma dentro i confini di uno specifico che possa ancora definirsi “arte”, “pittura”, “scultura”, senza mai compromettersi con gli artifici di una “spettacolarità ad effetto” o con la “vocazione manageriale”, oggi di gran moda.
Tracce spirituali
catalogo XV triennale d’arte sacra Celano, 2000
Raffaella Iannella
Con la tecnica rinnovata di materiali riciclati, Leonardo Pivi attualizza lo studio del mosaico, ma solo per l’esigenza dell’elogio alla lentezza che gli permette il processo meditativo e selettivo di raccolta di elementi organici e inorganici, come un anacronistico naturalista, collezionista di vetrine delle meraviglie e di stranezze eccentriche, bensì, per dar vita ad un mondo ideale, ad un soggetto bizzarro, grottesco, che sembrano usciti da contaminazioni della cosmografia cattolica con l’arte medioevale, un effetto di “manierismo gotico” come “critica comparata applicata all’iconologia”.
Infatti Pivi seleziona i materiali, soprattutto per i rimandi simbolici che essi contengono, e per la necessità di preparare in laboratorio una nuova vita, con frammenti provenienti da altri corpi, geneticamente diversi, ossia, denti, ossa, corallo, cocci di terracotta, legno fossile, metabolizzato e trasformato in tasselli “musivi” con l’attrezzatura tradizionale del mosaicista che “sono costretti dall’artista a produrre materia colore, non idonea al mosaico convenzionale” ma indispensabili alla sua poetica.
Il lavoro è magia di un’ “alchimia degli estremi”, caricato dello “spirito vitale”, l’essenza particolare che si può attingere solo dall’anima che Pivi identifica come il più grande dono che il creatore ha regalato all’uomo.
Così “ambasciator non porta pena” è la versione satanica di un angelo caduto dal cielo, da osservare nei dettagli, accostando le sfumature dei colori forti allo stupore di sostanze inusuali, ribelle al valore divino, compie il gesto assurdo di togliersi la vita, dal quale potrà rinascere a nuova esistenza.
Una combinazione che è analoga e ribelle tra l’assetto estetizzante e il contenuto del messaggio, tra l’aberrazione delle proporzioni e misure e la volontà di mettere insieme le diversità del mosaico come quelle dell’anima, con la dote di intuire il simile nel dissimile, la normalità nella stranezza e viceversa.
Ironia del movimento e della morte
Anteprima periodico settimanale del 20 10 1990 n° 14 Bologna
Dede Auregli
(…) Leonardo Pivi, ravennate attivo con mostre personali e collettive già da qualche anno, ci propone un immaginario che scava all’interno di personalissime interpretazioni antropologico-espressive, una sorta di “rivisitazione” di culture tribali e di moderno espressionismo, di paziente e sapiente manualità artistica e artigianale (le sorprendenti sculturine come tanti idoletti da lui realizzati scavando ciottoli di fiume o di viale e i pizzi e gli “uncinetti” di mano femminile) e di indifferente produzione industriale e d’uso quotidiano (gli imbuti di plastica o di lucido metallo che, perduta la tranquilla consuetudine dell’uso appaiono quali oggetti di tortura e quindi di morte).
In ogni lavoro è ben percepibile una carica di orrore quotidiano che viene tenuto perfettamente a bada da una fredda, quasi minimale costruzione dell’opera, giocata su strutture lineari, geometriche e comunque parche. In un paio di situazioni Pivi tenta anche la dimensione aumentata; ma se ci sembra riuscire in una “ultima cena” dove le teste in creta posate a terra – forse scalpi o mummie – acquistano la violenza di qualcosa che germina e prolifera, qualche dubbio rimane sulle dita mozzate, quasi falli giganteschi e sgonfi, ai piedi della minuscola figura femminile di “Africa Africa”. Nel catalogo che accompagna la mostra un testo di Roberto Daolio, uno di Claudia Colasanti Canovi e uno di Alessandro Pessoli, un altro giovane artista il cui lavoro, pur in forme e con ragioni diverse appare essere in sintonia con l’ironica (fino a che punto?) necrofilia del nostro. (…)
Ho, this is so contemporary!
Bmm allegato n° 14 del 25 11 2005
Sabrina Ghinassi
(…) Leonardo Pivi ravennate non per nascita ma per studi (Istituto d’arte per il mosaico Gino Severini), che è riduttivo definire esclusivamente mosaicista, grazie ad un percorso che lo ha visto, nell’ultimo decennio, diventare un protagonista della giovane scultura italiana con opere certamente non musive. Per Pivi quello con il mosaico è un rapporto riscoperto dopo anni di lontananza (le sue sculture precedenti spaziavano, come materiali, dal cemento alla plastica e al legno) e declinato in modo straordinario attraverso una sorta di filtro fortemente mentale e, nello stesso tempo, squisitamente tecnico. Bisogna sottolineare che tutta la sua storia d’artista ha prodotto lavori caratterizzati da una bellezza perturbante, unheimlich avrebbe detto Freud, dai contorni tra il familiare e l’inquietante, ma sempre affascinante: mostri-giocattolo, teatrini marziani, lavori che il critico Guido Molinari ha definito “Sogni Elettronici”.
E lo scenario ultimo di Leonardo Pivi si ricollega proprio a queste atmosfere: riprende in apparenza la calligrafia e l’eleganza di un codice miniato medioevale, riproponendo in micromosaico le copertine, le fotografie, le icone della nostra contemporaneità (da Lara Croft alle copertine di Flash Art, al bambino africano della copertina di un Venerdì di Repubblica) e trasformando la banalità della nostra vita in qualcosa di eterno e perfetto. In lui la fragilità della carta si eleva all’immutabilità della pietra. Sono piccole cripte della nostra quotidianità, mausolei minimi, reliquiari preziosi che raccontano i loop visivi della nostra esistenza, quello che scivola giorno dopo giorno, davanti al nostro sguardo.
Ma nello stesso tempo, l’essere lapideo del micromosaico possiede in se una vibrazione, una qualità materica che lo rende vibrante, instabile, come i pixel di un’immagine televisiva. E quindi quella stessa staticità diventa in realtà destabilizzante; ti rende insicuro dandoti un’altra immagine, un altro un altro senso a quello che stai guardando. Può essere lo sguardo del bambino africano immerso nell’acqua melmosa tinta di bagliori purpurei che acquista uno spessore ancora più doloroso dell’immagine fotografica, oppure un’eroina da cartoon che sembra uscire minacciosamente da una playstation; anche se Pivi non nega mai, ed è questa un’altra delle sue caratteristiche, una qualità seducente della materia, una bellezza conturbante che lega sempre lo sguardo. (…)
Beauty crash
Artkey n°7 nov/dic 2008
Susanna Mandice
(…) Negli ultimi anni, questo singolare artista ci aveva abituato ai mosaici, in un’originale ripresa della raffinata tecnica il cui apice è visibile ancora oggi nelle chiese dell’Adriatico, non a caso Pivi proviene da Cesena.
Da Ugolini invece, scopriamo, oltre alle consuete produzioni, mosaici di carta, meglio definibili come collages, anzi re-collages che rappresentano un percorso diverso eppure coerente con la ricerca dell’artista. Scultore e mosaicista, Pivi analizza la figura umana, ne seziona l’essenza, con caparbietà e precisione chirurgica rappresenta e stravolge le icone della contemporaneità. E accanto ai Re-collages, le sculture conturbanti e riconoscibili che sono valse a Pivi la partecipazione alla biennale di scultura di Carrara.
Insomma il tema si ripropone, con tecniche e soggetti differenti: Pivi ci racconta dell’uomo, ma in misura maggiore della donna che, asettica nell’esprimere sentimenti, si rifugia in canoni estetici prestabiliti e vacui, nei quali pare trovare una soddisfacente esaltazione.
Tuttavia, seppur nei parametri di beltà imperanti, le donne di Pivi presentano tratti caricaturali, cicatrici, segni di abbrutimento e sguardi bovini. Certo, non è inedito il tema, sono però sicuramente originali le tecniche utilizzate. Bamboline che sembrano le Bratz, collage di fotomodelle straziate, sculture di corpi essiccati: Pivi stravolge i canoni della bellezza e ne denuncia la piacente volgarità. Il tutto riporta a galla una vecchia questione: i prodotti di questa contemporanea e mediatica società, ibridi che celano al proprio interno apatia e conformismo, sono le vittime del nostro modo di vivere o ne sono gli artefici?
Flash Art n° 210, 1998
Recensione mostra Milano galleria Eos pag 112
Maria Grazia Torri
“Il bell’incubo di Maria” è il titolo della sconcertante mostra che Leonardo Pivi ha tenuto nello spazio vagamente chiesastico della galleria EOS.
L’aspetto che più salta agli occhi in questa rassegna è la follia degli accostamenti. Maria, ripresa pari pari da un santino, viene contrapposta ad altre immagini della serialità contemporanea tra cui Paul Newman e Hitler e l’effetto è fortemente omologatorio, perché quando ti impongono un’immagine, essa acquista comunque un valore auratico e un potere dovuto sia all’imposizione che alla selezione operata dal soggetto nell’ambito del set di tutte le immagini mediali disponibili, affinché essa ci colpisca.
Ma la cosa che sconcerta davvero sono i ritratti vilipesi dei santi, collocati in una sorta di “cappelle laterali”, mostri orrendi e raccapriccianti a grandezza naturale, costruiti con la paziente e certosina tecnica dell’antico mosaico, quella di sant’Apollinare, alcuni con gli organi sessuali ben in vista, altri con gli occhi dei cartoons ma con pupille riflettenti l’immagine di Maria dello stesso famigerato santino. Altrettanto sconcertanti sono certi putti in marmo collocati incautamente nei bidoni della spazzatura, o gli scheletri rattrappiti mezzi sotterrati sotto il livello del pavimento, quasi che la galleria si trasformi in una misteriosa e funerea cripta. La chiesa ha fatto per secoli di Maria lo stesso scempio che la televisione fa ora di noi, imponendoci le sue caterve di immagini, di idoli involontari non scelti, di mostri imposti a tutti i costi, persecutori della nostra quiete e guastatori della tranquillità pubblica. Maria, questo terrificante mostro pubblicitario, ha perso tutti i tratti della pietas per diventare come quel povero gigantesco burattino di legno, con la testa imprigionata in un forcone che cammina e si agita incessantemente simulando il nostro moto perpetuo. Sì quel burattino siamo noi non più vittime di una sacra immagine, ma di uno spietato, gigantesco, feroce e mostruoso immaginario collettivo teleimposto e videoconsacrato: Ottima e singolare è l’abilità di Pivi mosaicista, che stride anch’essa con la velocità spasmodica del tempo reale e della raffica di immagini con cui l’etere ci saetta e ci schiaccia.
Figurazione e Defigurazione
Galleria Civica di Bolzano, 1999
Letizia Ragaglia
(…) Leonardo Pivi lavora al nostro immaginario mitico (arcaico, religioso, filmico) sviluppando un personalissimo linguaggio che coinvolge elementi originari ed archetipici con il contemporaneo. Tra le sue creazioni recenti troviamo delle sculturine ibride, sconcertanti, sospese tra storia ed attualità che nell’acutezza della loro esecuzione racchiudono un complesso messaggio che rinvia alla nascita sacrale della scultura e che in quanto idoli (dal greco eidolon: figura, simulacro) ripropongono la sempiterna questione del culto di un’immagine come sede di un’idea. Anche nei suoi mosaici Leonardo unisce sinergicamente antichità ed attualità: la tecnica arcaica del mosaico ci permette, o meglio ci costringe a fissare un oggetto con criteri percettivi peculiari; per ricreare un soggetto in un mosaico ci dobbiamo porre di fronte ad esso con un’attenzione che esula da “vedere comune”. Leonardo Pivi crea dunque una “resistenza” ad un diffuso modo di vedere veloce e sfuggente (“clippato”) e ci propone di vedere con questi criteri un mito contemporaneo come Jim Morrison.
MediumMedea
catalogo, Museo d’Arte Moderna, Bolzano 1997
Letizia Ragaglia
Archetipo. Una parola chiave per il lavoro di Leonardo Pivi, il quale secondo una pregnante definizione di Roberto Daolio “attualizza l’arcaico e mitizza il sacro”. Nell’opera di Leonardo c’è una straordinaria conmistione tra originario e contemporaneo, tra “primitivo” e tecnologico, i quali si fondono con estrema naturalezza, si arricchiscono a vicenda. Potremmo persino azzardare di lasciarci sfuggire che il suo lavoro è una metafora del “nulla si crea e nulla si distrugge”…
Immagini, forme, gesti che attraversano il tempo – e i vari media che si susseguono nel tempo. Riferimenti, analogie, caratterizzano la complessa e affascinante ricerca di questo artista, interprete di questo tempo, in cui le sofisticate tecnologie della comunicazione, procurando un surplus di dati ed informazioni, ci permettono un dialogo ravvicinato tra miti antichi e contemporanei, ma creano anche un disorientamento nei confronti del mito, del sacro e dell’archetipo, e ne abbassano il significato, come sottolinea Claudio Marra altrove in questo catalogo. L’atto di fotografare la pancia di una donna gravida, su cui viene proiettata col video una scultura-maschera assurge a rito contemporaneo paradigmatico: la maschera, uno degli strumenti magico-mimetici più antichi, viene “tatuata” sul luogo che perpetua la vita per eccellenza – il ventre di una donna gravida -, ma ciò avviene per contrasto grazie all’impiego di una tecnologia sofisticata ed il tutto viene fissato da un medium istantaneo come la fotografia. I media, da un lato hanno annullato le distanze tra presente e passato, ma dall’altro hanno condotto ad una mitizzazione generalizzata: il lavoro di Leonardo ci fa riflettere sul modo in cui miti “originari” reagiscono al contatto con i nuovi “miti”.
Quattro venti
catalogo, Manciano 2002
Letizia Ragaglia
Leonardo Pivi lavora al nostro immaginario mitico (arcaico, religioso, filmico) sviluppando un personalissimo linguaggio che coinvolge elementi originari ed archetipici con il contemporaneo. Tra le sue creazioni recenti troviamo delle sculturine ibride, sconcertanti, sospese tra storia ed attualità che in quanto idoli (dal greco eidolon: figura, simulacro) ripropongono le sempiterna questione del culto di un’immagine come sede di un’idea.
Anche nei suoi mosaici Pivi unisce sinergicamente antichità ed attualità: la tecnica arcaica del mosaico ci permette, o meglio ci costringe a fissare un oggetto con criteri percettivi peculiari; per ricreare un soggetto in un mosaico ci dobbiamo porre di fronte ad esso con un’attenzione che esula dal “vedere comune”.
Nel progetto “Quattro venti” Leonardo Pivi è presente con due lavori. Sul retro della sede del comune di Manciano un braccio di metallo regge una maschera/teschio in osso, la quale si appoggia sulla punta di un cipresso.
Esperto di mosaici ha realizzato questa maschera ancor prima dei tragici eventi dell’undici settembre; adesso questa scultura, visibile da lontano, acquista un significato ancora più inquietante. Fedele alla sua rivisitazione di miti e archetipi, l’artista romagnolo posiziona un pinocchio con l’aureola di neon blu in una sede espositiva del centro di Montemerano.
No border #5,
catalogo, MAR museo d’arte Ravenna, 2005
Maria Rita Bentini
Nel percorso di Leonardo Pivi si registra la presenza di linguaggi distinti, disegno, scultura, mosaico e altro con una precisa e lucida dimensione concettuale entro la quale si collocano tessere in apparenza diverse: il lavoro grafico calamitato da un fondo onirico e mosturoso del suo primo tempo, così come la dimensione mitica, simbolica e insieme feticistica dell’opera plastica in seguito maturata e, infine, il recupero di una tecnica antica attinta al contesto della tradizione ravennate come il mosaico, rara nell’esperienze dell’ultima generazione dell’arte italiana.
L’immagine è per l’artista un luogo di azioni soggettive e collettive, dove si condensano valori e significati in mutazione, uno spazio da indagare e nel quale procedere per sondaggi estremi.
Uno dei fili intenzionalmente raccolti all’interno del proprio lavoro per questa mostra riguarda il tema dell’identità celata, ostentata e/o occultata nelle immagini, ibride creature di cui la babelica realtà odierna è satura; attraverso di esso il lavoro degli ultimi dieci anni può essere messo a fuoco con una specifica angolazione. Anche sedotto dal potere dell’universo mediatico, Pivi compie le sue scorribande tra cinema, fumetto, illustrazione, o saccheggia i rotocalchi, utilizzando come materiale primo la natura effimera e transitoria di personaggi, vicende, volti cui i media danno consistenza. Nelle sue mani il lavoro prezioso e paziente di micromosaico, recuperato alla sua prima formazione ravennate e raffinatamente messo a punto in questo decennio, diviene un esercizio di lentezza col quale scansionare i miti dell’immaginario contemporaneo e indagarne i risvolti, con l’aggiunta di titoli spesso graffianti e rivelatori. “Scambisti” è il nome assegnato al trittico musivo (2000) che presenta in scala monumentale tre volti dello spettacolo, icone in cui fiction e realtà sono intercambiabili perché perfettamente coincidenti: Spok, personaggio della serie televisiva di “Star Trek”; Myke Tyson, campione dello sport trasformato in grande show business; Sofia Loren, diva del cinema ed emblema della bellezza femminile italiana.
Identità virtuale denomina la serie di icone musive dedicate a Lara Croft, l’eroina-cult di “Tomb Raider”, il videogioco giocato da milioni di persone in tutto il mondo: bella, ricca, intelligente, superdotata, capace di superare ogni prova nelle sue misteriose avventure; un artificio della tecnologia, interamente disegnata al computer e attiva sul pc, un personaggio reale per l’immaginario collettivo eppure creatura del tutto virtuale.
“Io sono bugiarda” 2005 è un’esplicita dichiarazione della scultura-schermo televisivo sormontata dal volto marmoreo di Cattelan nella quale scorrono di “Pinocchio” il bugiardo per antonomasia del romanzo di Collodi; qui è il simpatico burattino nella versione di Walt Disney legato alla propria memoria d’infanzia, ma contiene una sentenza senza appello per la TV.
Pivi inoltre muovendosi nel labile territorio dell’identità contempoanea con un linguaggio prezioso e atemporale qual è il mosaico, insinua per paradosso il dubbio sulla consistenza dei volti effigiati.
La monumentalità-eternità che appartiene storicamente al codice del linguaggio musivo (il volto senza tempo di Giustiniano e la bellezza di Teodora vivono per sempre nello splendore aureodella basilica di San Vitale) è un deliberato “fuori luogo” se adottato per raffigurare personaggi che, come i replicanti di “Blade Runner”, vivono “a scadenza” il tempo breve dell’esistenza mediatica.
L’artista conduce il gioco della messa in scena di identità extraumane realizzando anche grandi ritratti musivi di mutanti come Wolwerine e la bellissima Mystica (2003), personaggi di “X-Men”, il film di Bryan Singer tratto dalla lunga serie di albi della Marvel in cui si da vita alle avventure dei supereroi nati con mutazioni genetiche e dotati di poteri straordinari – gli X-Men per l’appunto– in convivenza o in lotta col genere umano. Pixel di lapislazzuli, coralli, madreperle compongono la carnalità di queste creature irreali, così come preziosi materiali marmorei bianchi e neri specchianti vengono utilizzati per il look cyber-punk del trittico Matrix (2003) al quale appartiene l’aggressiva Trinity in mostra.
Anche in questo caso Pivi si volge al cult della fantascienza, in cui il tema della simulazione della realtà è parte del plot (Matrix è il programma di simulazione creato per tenere soggiogato il genere umano, fino a quando l’eletto/Neo, hacker dalle notti insonni liberato dalle catene della realtà virtuale, non condurrà un duello all’ultimo respiro per salvare l’umanità).
L’azione della campionessa italo-cinese di arti marziali Xu-Hui Hui, ideata dall’artista per la vernice, fa parte di questa trama di rimandi nell’inseguimento di identità multiple tra finzione e realtà: ha tradotto in tangibile presenza fisica il tripudio di acrobazie e effetti visivi speciali del film, nel quale la tensione narrativa si avvaleva di una sequenza di azioni spettacolari.
Anche le “copertine” realizzate in questi anni esplorano il tema della mutazione di identità cui i media danno vita nello specifico della carta patinata, mettendo a fuoco in particolare la sfacciata architettura di immagine-parola della prima pagina.
Le copertine sono un Ready-made “rettificato” come direbbe Duchamp, vale a dire vere prime pagine di giornali, riviste, rotocalchi, materiali “usa e getta” scelti dall’artista sui quali egli interviene rifacendo particolari in micromosaico e infine rinominando.
Il “corpo aggiunto” è un’apparente tautologia, riformula ciò che già c’era di fatto inquinandolo.
Ancora un paradosso: la fragile esistenza della carta stampata, la sua bassa qualità visiva, la sua bruciante attualità di immagini scelte”ad effetto”, accanto alla preziosa tessitura della tecnica musiva adattata con precisione chirurgica, una distanza, un segno di un’aura non pertinente.
Il dettaglio della maschera sul volto accomuna le copertine presenti in mostra, da la maschera di Fashion (2004) alle più recenti Rebecca, La Veneziana, Turtle.
La perfetta bellezza di un modello, l’inquietante realtà della bimba fuorilegge perché nata in Italia dalla fecondazione eterologa, Michael Pitt con bizzarri occhiali–tartaruga da divo: sono molte e diverse le identità nascoste, non solo quelle dietro ad una mascherina.
Nella complessità del lavoro di Pivi diviene una lettura dell’immaginario collettivo, dei fantasmi che lo abitano (tra essi l’ambigua bellezza femminile della “Venere equina”, 2005, feticcio tratto dal limbo di fantasie erotiche maschili).
Spazio aperto al disegno
catalogo, Villa delle Rose Bologna /Bari 2003
Dede Auregli
(…) Leonardo Pivi anche nel disegno, come nella scultura, rivolge un’attenzione quasi ossessiva alla perfezione formale, anche i temi trattati non differiscono in modo particolare, e infatti qui siamo di fronte ad un universo immaginativo fantastico e onirico, spinto verso un aspetto particolare che è quello di un divertissement surreale e malignetto in bilico tra il fumetto horror e i grandi maestri “gotici” del passato.
Tema Celeste
n. 78, 2000 pag 108, recensione mostra Lodi
Sabina Spada
I recenti lavori scultorei di Leonardo Pivi non abbandonano la linea poetica segnata dai precedenti: attraverso il recupero di iconografie arcaiche e l’impadronirsi di linguaggi espressivi del passato, l’artista ricrea con ironia figure legate a miti e riti di culture lontane. In mostra, una cassaforte a parete, aperta per la durata dell’esposizione, custodisce cinque piccoli idoli di pietra calcarea, abbelliti con monili d’oro e pietre preziose. Le sculture dell’opera “Fuori Gioco” introducono a un mondo primitivo, che ricorda per certi aspetti le antiche civiltà sudamericane.
La collocazione all’interno della cassaforte, oltre a sottolineare la preziosità che solitamente caratterizza i reperti archeologici, allude alla possibilità che le opere siano improvvisamente sottratte allo sguardo.
Il che, nel mondo attuale dove l’immagine è sovrana, e dunque lo sguardo fondamentale, ne azzererebbe paradossalmente il valore.
Tema celeste
n°85 2001 pag 106
Daniele ugolini contemporary Firenze
Daniela Ardizzone
Leonardo Pivi è noto soprattutto per le sculture fiabesche le cui sagome, le cui sagome ispirate alla figurazione antica, sono deformate a tal punto da diventare caricaturali.
Nella recente mostra fiorentina l’artista ha esposto una nuova serie di opere per le quali, utilizzando tecniche e materiali propri della scultura tradizionale, trae ispirazione da un universo simbolico e religioso classico stravolgendone ironicamente i contenuti. Due bassorilievi scolpiti nel marmo bianco raffigurano immagini religiose estremizzate: la Madonna col bambino tiene tiene tra le mani un cervello, e attraverso la ferita al cuore del Cristo si intravedono anche gli altri organi interni. Sulla parete opposta, un mosaico colorato riproduce in sezione uno stomaco.
L’interesse di Pivi verso il mondo arcaico – ricco di simbologie sacre– e la tendenza ad attualizzarne la rappresentazione, è evidente anche in un bassorilievo che si riferisce alla prima clonazione animale all’interno di una cellula scolpita nel marmo, nonché in un’istallazione consistente in una piccolissima madonna col bambino affondata dentro una provetta in vetro riempita di liquido trasparente.
D’altra parte, la riproduzione sproporzionata di un cervello di gallina, dalla forma levigata e tondeggiante, che domina beffarda al centro della prima stanza, è in contrasto con i canoni estetici della scultura antica ed esprime la propensione dell’artista verso immagini inconsuete.
Su due pareti, nella seconda stanza della galleria, diversi frammenti di pietre raffiguranti teste umane – apparentemente piccoli reperti archeologici ma in realtà opere minuziosamente scolpite dall’artista– sono collocati in cerchio così da contrassegnare le ore dei grandi quadranti di due immaginari orologi privi di lancette.
Chiude la mostra una sorta di pianta fiorita composta da materiali organici, quali piccole ossa di animale in luogo dello stelo e denti umani al posto dei petali.
Colpo di testa
catalogo, Galleria Maniero Roma, 2002
Lorenzo Canova
Leonardo Pivi ha realizzato la testa di una Mucca Carolina (“Carolina guarda il treno che passa”), opera che mostra una rigorosa qualità formale (esibita nelle vene e nella pelle dell’animale) unita ad un’ironia quasi crudele, che rende incerto lo spettatore sul destino della vacca,destinata ad una pubblicità oppure macellata ed esposta in vetrina, con un immagine in bilico tra classicità e reclame, tra natura morta e reportage sulla crudeltà.
Juliet Art magazine,
n. 118, 2004 pag. 60
Francesca Giraudi
Leonardo Pivi pur riconosciuto come un abile artista musivo, non disdegna altri linguaggi espressivi come la scultura e l’oreficeria, sovvertendone però le regole e i codici.
Per esempio i venti gioielli da lui prodotti, tra collane, pendenti, anelli e oggetti, formano una raccolta di piccole sculture preziose, di “sculture indossabili”, che oltre ad avere una valenza estetica e decorativa originale, contengono anche un chiaro messaggio artistico, offrendo al visitatore la visione quasi di una serie di reperti, di frammenti di natura preziosa.
La ri-costruzione di organi umani nei gioielli, come il cuore, l’intestino, i denti o il cuoio capelluto viene effettuata attraverso l’accostamento di materiali diversi: l’oro giallo o bianco si unisce alla pietra o all’osso, che appartiene a qualcosa di ex –vivente, al corallo, che rappresenta il sangue, al marmo rosa, che rimanda all’incarnato, o alla madreperla, che per il suo colore assomiglia alla saliva.
Ognuna di queste “sculture indossabili” porta con sé anche un titolo, un nome o meglio, un’immagine: un pendente, lavorato in osso, corallo rosso, turchese sintetico, turchese naturale e con una montatura in oro giallo si chiama, per esempio, “cuore di vampiro”, una collana racconta di “amanti e spasimanti”, mentre nel pendente in osso, madreperla e oro bianco la frase “cuoricino mio bello non fermarti mai” è incisa direttamente sul materiale della sculturina stessa, che diventa un’amuleto per scacciare la paura della morte, perché, come ha scritto Carla della Beffa,“un po’ di cinismo, un tocco di macabro servono a sdrammatizzare”.
Leonardo Pivi, nato a Cesena nel 1965, dal 1982 partecipa a numerose mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Artista poliedrico e maturo, Pivi si muove con efficace disinvoltura fra i diversi generi artistici, ma soprattutto fra la scultura ed il mosaico, da segnalare l’opera proposta al pubblico nel 2004 con il ritratto di due personaggi del mondo del cinema, quella parte del cinema che ricorda come gli homo superior nella catena evolutiva non siamo noi, ma i figli dell’atomo, nati con una mutazione genetica esclusiva.
Gli X–Men, con Wolwerine, un combattente solitario per la salvaguardia dei mutanti, e con Mystique appartenente alla fratellanza dei malvagi, ora sono appesi alle pareti nella casa di un qualche collezionista e mostrano come il fantastico mondo del cinema rappresenti il tema maggiormente ricercato in questo tipo di composizione figurativa.
Nel solco della tradizione più consolidata, Leonardo Pivi in queste icone che guardano ad una dimensione a noi incomprensibile si riconosce per comporre mosaici che sono plastici perché prendono vita dai colori di ciascuna tessera di marmo, turchese o di corallo, tagliata e lavorata a mano e poi sapientemente connessa alle altre.
Medioevo Prossimo Venturo
catalogo, Palazzo pretorio di Certaldo 2004
Maurizio Sciaccaluga
Icone
Protagonisti frontali dei mosaici Bizantini, Santi e imperatori dominavano L’iconografia di un tempo, si ergevano nelle volte di cattedrali e chiese, monasteri e palazzi. Si trattava di figure ieratiche e altere, personaggi distaccati e superiori, sempre e comunque al di sopra del mondo. Oggi non è cambiato niente, se non che al posto dei santi e degli imperatori sono arrivati attori e starlette, cantanti e veline, calciatori e top model. L’alterigia è la stessa, la posa rigida e frontale – della serie A due espressioni con e senza sigaretta –anche. E’ la posa del potere, sia esso temporale, religioso o semplicemente mediatico, Leonardo Pivi ritrae i nuovi santi in mosaici contemporanei che echeggiano gli antichi capolavori bizantini, ne ripetono ironicamente la tecnica, giocano sul dilemma contemporaneo pittura-non pittura.
Il mosaico in prima pagina
Tratto da Arte mondadori n. 374, 2004 pag.150
Maurizio Sciaccaluga
Il complimento più bello ai lavori di Leonardo Pivi lo ha fatto, involontariamente nella scorsa primavera, una ragazza nello stand della galleria Astuni alla Flash art fair di Milano. Di fronte a un allestimento di sole riviste, sparse ovunque, la giovane appassionata a girato subito i tacchi e se ne è andata, sbuffando ad alta voce che avrebbe voluto vedere opere, non giornali. In realtà, se avesse dedicato un po’ più di attenzione ai vari numeri di Arte, Flash art, Colors, Bell’Italia e Vanity Fair appesi alle pareti o appoggiati sul tavolo, avrebbe potuto capire che si trattava proprio di opere, e non di carta stampata. Avrebbe notato che, invece di essere semplicemente fotografati, i personaggi di copertina erano stati ridisegnati, alla perfezione, con tanto di ombreggiatura e sfumature, in micromosaico.
Non immagini patinate dunque, ma tasselli di pietre dure, marmo e pasta di vetro assemblati con pazienza antica per riprodurre la grafica di presentazione dei mensili Mondadori, per ricreare i lineamenti di star da prima pagina come Vasco Rossi e Michael Schumacher.
Da S. Vitale a Ginevra
Nato a Cesena nel 1965, ancora prima di compiere un anno Pivi è a Ravenna, la capitale dei mosaici. Lì cresce nel mito dei capolavori di San Vitale e Sant’Apollinare, e lì studia, all’istituto d’arte, le metodologie di restauro delle composizioni romane e bizantine.
L’Accademia di Bologna e le luci abbaglianti del contemporaneo gli fanno però presto dimenticare passioni adolescienziali e vecchie tecniche, e così negli esordi artistici della fine degli anni ottanta e degli inizi del decennio successivo non c’è traccia di malta e tasselli.
I lavori di quel periodo in larga parte, sculture di legno e di legno e pietra presentate alla galleria bolognese Neon insieme alla ricerca dei giovanissimi Eva Marisaldi, Maurizio Cattelan, Emilio Fantin, puntano a creare un cortocircuito fra tradizione e innovazione, tra elementi classici della storia dell’arte e altre presenze assolutamente illogiche e inaspettate.
Tra le tante opere si ricordano soprattutto un pinocchio crocifisso e una prima serie di talismani taumaturgici dove l’iconografia etrusca, azteca o maya si confonde col kitsch dei tempi moderni, con simbologie popolari e, non di rado volgari.
La commistione tra vecchio e nuovo, tra sacro e profano, convince tanto Pivi da diventare un leitmotiv anche dei pezzi successivi, compresi quei mosaici che, a partire dalla metà degli anni novanta, da una mostra alla galleria svizzera Analix, ricominciano a interessarlo.
A Ginevra presenta un’enorme opera musiva di tre metri di base che, per la realizzazione, gli ruba mesi di lavoro e gli fa capire quanto incompleti e insoddisfacenti siano stati gli insegnamenti scolastici.
Riprende cosi a studiare e, da quel momento, si sprecano le mattinate nelle basiliche ravennati, i pomeriggi in biblioteca, i viaggi alla galleria Borghese di Roma.
In pratica, la scelta è fatta.
Marylin e Giustiniano.
Dieci anni di mosaici, dal 1994 a oggi, fanno di Pivi un vero esperto del genere, uno degli artisti forse più originali del panorama europeo.
A parte qualche ironica citazione, come la riproposizione rivista e corretta di particolari presi di peso dai reperti romani (una coppia di colombi che tubano posati su un abbeveratoio), le sue opere prendono le mosse dalle composizioni bizantine, da quei personaggi frontali, ieratici e statuari dati alla luce durante l’impero romano d’oriente.
Solo che, nei pezzi dell’artista romagnolo, al posto di Giustiniano e di Teodora, invece degli apostoli Pietro e Matteo, si fanno notare Marylin Monroe e l’eroina dei videogiochi Lara Croft, personaggi dei fumetti e campioni dello sport. Le icone del novecento, prese in giro da titoli irrispettosi, come quando il pugile Mike Tyson, l’attrice Sofia loren e il protagonista di Star Trek Spok sono riuniti nel trittico “Scambisti”, si sostituiscono a santi e regnanti del passato, e i guantoni da boxeur e le pistole di Tomb raider prendono il posto di stimmate e vangeli.
Rispetto ai capolavori ravennati, ai tanto osservati reperti di San Salvatore in Chora a Instambul, Pivi rinuncia anche ai fondi oro e alle figure intere, a cui, come da lezioni mediatiche contemporanee, preferisce il piano americano e il mezzobusto.
Magari addirittura un’inquadratura di tre quarti, come Lilli Gruber insegna.
Non dimentica però la brillantezza dei particolari, la ricerca della terza dimensione, che ottiene contrapponendo tessere e materiali diversi, in grado di reagire in modo opposto alla luce.
In un polittico del 2003 dedicato all’epopea cinematografica di Matrix, dove ritrae in sequenza gli eroi della saga Neo, Morpheus e Trinity, costruisce la rotondità delle figure accostando neri splendenti a toni opachi, linee di marmo lucidato e brillante a campiture monocrome e spente.
E alla fine Carrie-Anne Moss, l’interprete di Trinity, viene fuori arrogante e prepotente come una novella imperatrice.
Misure micro.
Padrone assoluto della tecnica nel 2003 l’artista riduce la dimensione delle tessere e, come nelle ville romane del Nord Africa, comincia a usare inserti di misure ridottissime, addirittura pochi millimetri. L’effetto è assicurato. Le minuscole pietre gli consentono addirittura di ricostruire, in modo credibile, le copertine delle riviste, da cui taglia via le figure con un cutter prima di ridisegnarle identiche, inserendo un mosaico all’interno della pagina sagomata. Alle caratteristiche delle pietre dure, delle paste di vetro, dei marmi, aggiunge così anche i riflessi della carta patinata, nuova frontiera della tecnica.
Grida di pietra
“Cuore di pietra” (da catalogo) Mole Vanviteliana Ancona 2006
Maurizio Sciaccaluga
Nei mosaici di Leonardo Pivi la pietra è la pelle, è il colore e la pennellata sono raccontati, con una tecnica antica e elaboratissima, con un impegno ricco di storia e di anni e bisognoso di estrema conoscenza, i volti e i miti della più stretta contemporaneità, con conseguente cortocircuito tra lo stile e il soggetto delle opere.
La scuola rimanda ai capolavori ravennati, bizantini, della Roma nordafricana, ma i temi sono quelli tipici della fantascienza, del giornalismo, del gossip attuali. Il cuore della pietra è il suo sapersi fare olio, acrilico, tempera, mantenendo però, a differenza dell’olio, dell’acrilico, e della tempera, un suo proprio spessore, un’anima forte e pesante capace di dare nerbo all’opera, di renderla imponente (nonostante i soggetti siano legati alla cultura contemporanea dell’usa – e – getta).
Pivi riesce a dare ai lavori quel fremito, quella vibrazione tipici dei capolavori del passato ma, allo stesso tempo, è in grado di riprodurre una logica compositiva a pixel
del tutto legata agli ultimi lustri.
Morrison e Gligorov. Idoli laici di un artista senza religione
Arte Mondadori, marzo 1999
Maurizio Sciaccaluga
Mescola sacro e profano. Descrive artisti come dei. Cantanti come imperatori.
Questi i nuovi eroi di Leonardo Pivi. Cinici, provocatori, irriverenti
Gli affreschi, le sculture, i mosaici, i dipinti, le installazioni di Leonardo Pivi si appropriano di linguaggi e stili che è facile ricondurre ai periodi storici da cui li ha donati. Utilizzando materiali, tecniche, forme e icone sottratti all’arte del passato, Pivi dà corpo a opere in cui di antico vi è però solo l’apparenza. Sculture primitive, mosaici tardoromani, lapidi gotiche e affreschi rinascimentali perdono severità, ieraticità, rigore e religiosità per concedersi allo spirito desacralizzante e ironico dei nostri giorni. Usa spesso le icone dell’arte sacra per una scultura di grande irriverenza. Statuette votive, idoli lapidei, figure propiziatorie si fanno latori di una nozione del tutto opposta alla loro forma. Nel 1992 Sudano trasforma la Sindone in un rosso ricamo a uncinetto, Animazione (1993) mette in scena la spietata crocifissione del burattino Pinocchio, L’Evangelizzatore Vecchio Porco (1995) nei modi ieratici della statuaria egizia, forza contenuti volgari in una forma che mima l’intensità del sacro, Chi l’ha visto (1998) attribuisce stimmate sanguinanti a un’austera sculturina arcaica. Procedendo in questa commistione di generi e idiomi, l’artista descrive un universo di idoli laici dotati del magico potere di portare scompiglio negli arcani della memoria. Il mistero che celano questi oracoli è facile da svelare. Smarriti religiosità e pensiero mitico, resta a sostituirli una razionalità scientifica o la sfrontatezza culturale. Il gesto provocatorio di Pivi ripopola gli spazi del culto, dove un tempo risiedevano dei ed eroi, con Jim Morrison, Pinocchio, Robert Gligorov e i Puffi.
Dal mosaico alla tempera grassa
Leonardo Pivi è nato a Cesena nel 1965. Oggi vive a Riccione, dove ha lo studio (via Etna 9, tel. 0541-693101). In questi mesi sta lavorando alle opere della personale che si svolgerà a novembre e raccoglierà una ventina di dipinti a tempera grassa di grande formato (cm 200×250). La mostra si terrà nel nuovo spazio milanese del gallerista Mario Nuciforo, che aprirà i battenti a settembre con una personale di Gligorov. Il prezzo delle sculture di Pivi parte dai 3-6 milioni per le opere di piccole dimensioni (li cm 20), per toccare gli 8-12 milioni per quelle più grandi. Il costo di un mosaico varia da 8 (cm 120×110) a 13 milioni, fino a raggiungere i 20 milioni per i lavori più complessi. Una tempera grassa si può acquistare per 7 milioni.
Pivi scultore per vocazione
catalogo anno 2001
Luca Beatrice
Non è specificatamente critica questa definizione di Leonardo Pivi; è stato infatti Alessandro Pessoli, artista suo conterraneo, con poche parole a presentarne l’attitudine: (le sue) sono sculture per vocazione, nascono e sono comprese nello spazio delle mani, presuppongono l’intervento diretto della manualità dell’artista. All’opera di Pivi si potrebbero accostare diversi termini come primitivo, primordiale, magico, ancestrale, fantastico, surreale.
Tutti gli si addicono ma tutti in qualche modo si limitano a cogliere solo uno dei possibili aspetti, quello più appariscente e legato ad una lettura iconografica, comunque affascinante, del suo lavoro, che è molto ma, appunto non è tutto. Osservando infatti il percorso di Pivi viene da posizionarne l’opera all’interno della scultura. Sarà dunque necessario chiedersi, riprendendo un’interrogativo lanciato più di quindici anni fa da una celebre mostra a Parigi, “che cos’è la scultura moderna?”. Scrive Martin Mertens: Il xx secolo ha prodotto un radicale cambiamento nel concetto di “arti plastiche” e di “scultura”. Categorie come il ready -made, l’objet trouvè, l’installazione, le arti plastiche sociali, la videoscultura e molti altri modi della rappresentazione formulano nuove e interessanti questioni sulla scultura.
Tuttavia l’arte contemporanea spesso paga il prezzo dell’emancipazione e della libertà con il disorientamento e il qualunquismo.
Da una parte infatti assistiamo alla tendenza del cosiddetto “slittamento” della scultura in qualcosa d’altro (ai generi individuati da Mertens si potrebbero aggiungere almeno gli environnments e la body sculture) che insegue lo scopo di attualizzare al massimo questa categoria allontanandola nel contempo dall’intenzione originaria, la manipolazione del materiale. Dall’altra parte invece, il lavorio anacronista sulla materia trasforma spesso l’attività dello scultore in un atto di resistenza, in qualcosa di deliberatamente inattuale.
Si chiede ancora Mertens a proposito del lavoro di Stephan Balkenhol: perché un’artista giovane e moderno fa sua una scultura classica vecchia di cento anni, alle cui domande, apparentemente, si è trovata risposta da tempo? Ecco, questo interrogativo potrebbe essere girato subito a Leonardo Pivi: in che modo e perché fare scultura nell’anno 2000? Intanto resta la necessità di intendere questa categoria dell’arte come manipolazione di un materiale allo scopo di ottenere una forma.
Ciò è imprescindibile in Pivi “scultore per vocazione”, è l’autentico motore del suo lavoro dove manipolazione della materia equivale a sperimentazione sulle forme. In questa mostra presenta uno degli aspetti della sua opera, i piccolissimi formati, veri e propri tesori di cesello e di oreficeria che ce lo fanno apparire come un Cellini contemporaneo: minuscoli gioielli alti meno di venti centimetri, pietre scolpite con assoluta perizia ed arricchiti da inserimenti di preziosi e, talora, contaminati da residui organici (peli, ossa, denti) la dimensione così ridotta, peraltro atipica nel panorama contemporaneo, suggerisce un’idea di protezione, di riparo, di sottrazione allo sguardo estraneo, un atteggiamento antienfatico ed estremamente rispettoso come se si trattasse di piccoli segreti da custodire con cura straordinaria e inusuale per un oggetto d’arte, oggi. Precisato ciò, va detto comunque che queste minuscole prove non esauriscono l’indagine di Pivi nella scultura: per contro infatti lavora su grandissimi formati, addirittura monumentali, utilizzando in tali occasioni materiali molto più poveri come il cemento, resine polimateriche ultraleggere, leghe sintetiche.
Trait-d’union tra questi due aspetti è il mosaico, altro materiale trascurato dalla contemporaneità, in cui Pivi opera con preziosismi sul singolo tassello ma dilatando l’immagine fino a raggiungere dimensioni davvero notevoli. Dove il discorso di Leonardo Pivi si fa decisamente contemporaneo è nell’iconografia. Queste “immaginette” apotropaiche, cariche di valori ancestrali e primordiali rispondono in realtà ad una necessità della nostra specie tanto più sviluppata ed urgente quanto più si fa vicino il contatto con il futuro e l’ignoto: ricercare lontano da sé le radici della propria storia ed utilizzarle non come un reperto del passato ma come forza viva e presente.
Si potrebbe dire dunque che le sculture di Pivi sono “antropologiche”, uno studio sull’uomo e della cultura umana.
Figure dall’antico che in realtà parlano di trasformazioni, ibridazioni, contaminazioni mescolando la natura organica con quella inorganica, il naturale con l’artificiale, i grilli medioevali con i freaks del futuro, l’africanismo dei primi Novecento e quello di oggi, immagini talora minimali talora espressioniste, le tavole di anatomia con i film di fantascienza, le raffigurazioni grottesche con il nuovo fumetto.
Pivi è un’eccellente disegnatore (nell’opera su carta tocca punti notevoli di sperimentazione in un tratto nervoso e carico di sense of humour) e talora si cimenta nella pittura a tempera su tavola, una pittura magra e molto incisiva: entrambi, il disegno e la pittura funzionano sia come ideale completamento della scultura, sia ne posizionano l’opera all’interno di un percorso parallelo dell’arte contemporanea (parallelo alla linea della riduzione minimalista e della freddezza neoconcettuale) dedicato all’esplosione fantastica. Un’arte che si fonda su una sovrabbondanza di dettagli, sull’horror vacui, sull’effetto visivo buono soprattutto per gli intenditori e relazionabile ad una sensibilità culturale molto ampia di cui l’arte visiva è appena un segmento: la pittura della West Coast americana, le foto di Joel Peter Witkin e di Gligorov, le ceramiche di Luigi Ontani, le illustrazioni, i film e le opere letterarie di Alejandro Jodorowski, il cinema di Luis Bunuel e i b-movie di SF. E, cosa più interessante, Pivi è in grado di ottenere questo effetto magico spiazzante con una delle forme più tradizionali, la scultura. Perché Pivi è uno “scultore per vocazione”.
Triennale D’arte Sacra 2008
catalogo Edizioni Stauros, 2008 pag. 232
Luca Beatrice
Ogni linguaggio ha trovato un proprio momento aureo, la fase di maggior diffusione, stabilendo così una classificazione delle arti in “maggiori” e “minori”, che ha spesso determinato l’affermazione o la scomparsa delle stesse.
Un esempio calzante è la miniatura.
L’illustrazione dipinta, dopo la diffusione in epoca medievale come principale supporto a corredo dei testi scritti -in quanto tecnica che ben rispondeva alle esigenze estetiche e, soprattutto, comunicative della chiesa- è pian piano scivolata in un ruolo marginale, che l’ha relegata per lo più a elemento accessorio di documenti e codici.
Simile percorso lo ha vissuto il mosaico, un’arte che trova origini in tempi lontani, fin dal mondo bizantino -si pensi al ricco patrimonio presente in Italia (il mausoleo di Galla Placidia, Sant’Apollinare in Classe e la chiesa di S. Vitale a Ravenna)- e che in epoche più tarde è stata completamente soppiantata, da pittura, scultura, e architettura, considerate invece espressioni d’a rte “maggiore”, dunque intimamente più auliche.
Già nel novecento, sia in ambito nazionale – come dimostrano le opere musive realizzate a Parigi da Gino Severini insieme al gruppo di maestri mosaicisti di Ravenna (Signorini, Rocchi, Melano, Guardigli, Cicognani)- che internazionale- ne è una testimonianza la reinterpretazione innovativa prodotta dal grande architetto Antoni Gaudì al park Güell di Barcellona – si assisteva a una vera e propria rinascita del mosaico, inteso ormai come espressione autonoma e arricchita di nuovi parametri estetici e critici. Leonardo Pivi è sicuramente tra gli artisti italiani che più contribuisce, in maniera dinamica e nuova alla riaffermazione di questa antica tecnica.
In piena adesione alla funzione narrativa che il mosaico ricopriva in epoche passate, Pivi riadatta tale pratica antica in chiave moderna, individuandola come strumento comunicativo in grado di trasformare la cronaca attuale in storia. Il suo ciclo di micromosaici – tessere preziose inserite all’interno di pagine di giornali e riviste- si pone come un ossimoro: un materiale cartaceo dall’uso rapido e di breve durata viene infatti contrapposto a un materiale pregiato, simbolo di eternità e durevolezza.
È in questo binomio che Leonardo Pivi colloca l’opera “L’anima mia magnifica il Signore”: tre copertine di una nota rivista d’arte diventano i supporti su cui, con una calma d’altri tempi quasi certosina, sono applicate le tessere musive a esaltazione dell’iconografia della Vergine e dei due Angeli.
Il suo lavoro quindi non si limita alla sola riproduzione di immagini prestampate, ma all’attenta trasformazione di queste in oggetti rari, in memorabilia, in manufatti da collezione.
In un costante alternarsi di tradizione e contemporaneità, nel continuo tentativo di coniugare l’antico con il moderno, l’attività di Pivi trova, nel tema religioso, una delle principali risposte alla sua ricerca artistica.
Pivi –Schmidlin / classico-contemporaneo
catalogo, Marena Rooms Gallery, 2008
Luca Beatrice
La storia dell’arte ricorda il 1986 come l’anno di un’importante mostra ordinata presso il centro Pompidou a Parigi. Que’est-ce que c’est la sculture moderne?, titolo e allo stesso tempo interrogativo su come si possano definire e individuare gli elementi di contemporaneità nella scultura,dopo la profonda frattura avvenuta negli anni sessanta, prima con il minimalismo quindi con l’arte povera. A partire proprio da tali esperienze la scultura al pari e forse più di altri linguaggi dell’arte, viene sottoposta a un radicale processo di revisione che ne determina la perdita di confini certi per approdare invece a un territorio spurio, indefinito, trasformatosi via via in oggetto, installazione, intervento, fino alla smaterializzazione assoluta nelle operazioni concettuali più estreme.
Ovvero la perdita di senso pressoché totale della scultura, in quanto disciplina fortemente ancorata alla materia e alle sue manipolazioni.
Il cambiamento registrato allora, ivi compreso l’utilizzo sempre più insistito di materiali anomali, comunque non nobili, spesso scarti del processo industriale, porta come conseguenza immediata l’esclusione di qualsiasi ipotesi figurativa nella scultura.
Mentre nella prima metà del novecento le sperimentazioni maggiori avvengono ancora all’interno dell’immagine -da Medardo Rosso ad Arturo Martini, da Marino Marini al Fontana ante spazialismo (come si evince nel resto del catalogo la scultura italiana del xx secolo, mostra inaugurale della fondazione Pomodoro a Milano nel settembre 2005) -nella seconda parte, a cominciare dall’informale fino alla summenzionata frattura epocale degli anni sessanta- gli artisti che insistono a “scolpire” immagini si prendono il rischio di scivolare nel cliché, nel monumentalismo, sposando una pericolosa inattualità e un gusto retrò, magari neppure corrispondenti alle loro intenzioni.
Con l’eccezione (straordinaria) di Alberto Giacometti è difficile dunque trovare nel tardo Novecento scultori innovatori all’interno della figurazione.
Ma una seconda rivoluzione mette in crisi un atteggiamento troppo conformista, proprio sul finire del secolo scorso.
Con gli anni novanta si assiste al progressivo sdoganamento della pittura figurativa.
Finita l’era delle ideologie e del massimalismo (strano, nell’arte talvolta i muri persistono più a lungo che nella realtà), anche nell’epoca contemporanea diventa possibile affrontare le immagini e allo stesso tempo essere ritenuti artisti d’avanguardia. Rispetto alla pittura (cui viene in aiuto il mimetismo con la fotografia) la scultura fa più fatica a liberarsi dei vecchi tabù. Primo, perché legata ai materiali della tradizione storica (la pittura potrebbe anche apparire sciatta, non finita, la scultura di certo no, pena la manifesta incapacità dell’autore). Secondo, perché impossibilitata ad applicare il dogma della leggerezza, altro diktat del contemporaneo. Infine, perché conserva nel proprio specifico elementi di monumentalità impossibile da evadere.
Se oggi il panorama dei “nuovi scultori figurativi” appare certo più vivace e mutevole, nel decennio scorso non erano in molti a tentare la sfida di una scultura figurativa, ancorata alla classicità ma perfettamente calata nel tempo.
Si distinsero pochi pionieri, come il tedesco Stephan Balkenol e il suo tenace lavoro sulla tradizione lignea.
Tra coloro che in Italia hanno raccolto la “provocazione”, Paolo Schmidlin e Leonardo Pivi (Milanese il primo del 1964, Romagnolo del 1965 il secondo, rappresentanti dunque di una stessa generazione) negli anni hanno sviluppato e affinato tecnica e linguaggio, risultando così tra gli esempi più complessi, felici e articolati di questo nuovo segmento espressivo. Scultori classici-contemporanei per definizione, entrambi scelgono materiali pienamente identificabili nella storia.
Il loro modo di procedere, lento ed artigianale, nel riscoprire il metodo della manipolazione ossessiva, fa saltare una volta per tutte la logica dominante del minimalismo, per la quale è possibile (addirittura doveroso) assimilare la costituzione dell’opera a un processo meccanicistico.
Pivi e Schmidlin riscoprono il rapporto diretto con la materia e con le forme, ne seguono i percorsi di formazione e trasformazione. Sono dunque scultori veri. Non artisti concettuali prestati alla scultura.
Leonardo Pivi ha sondato materiali differenti ma, soprattutto, è un esperto di mosaico.
Paolo Schmidlin si esprime esclusivamente con la terracotta, da cui ottiene sculture a tutto tondo smaltate con indubbio effetto iperrealistico.
Se Pivi è cronachista, Schmidlin è allegorico.
L’uno osserva la realtà, l’altro la trasfigura. Leonardo punta a modelli pubblici e icone condivise, Paolo a una visione allegorica del potere, messo in crisi dall’artista giullare – buffone – trickster, regista –burattinaio dei suoi mostri.
Entrambi si rivolgono alla storia dal punto di vista dei materiali e dei linguaggi e entrambi osservano soltanto il loro presente.
Pivi opera non lontano dalla cultura della civiltà musiva italiana. Forse per la sua posizione geografica, una porta d’oriente al pari di Venezia, Ravenna vede l’irradiarsi dell’influenza Bizantina, soprattutto per l’impiego dell’oro e dell’argento nei punti strategici dell’architettura del mosaico.
Un’arte che sviluppa, unitamente alle soluzioni decorative più estreme e virtuosistiche, la tendenza al racconto a farsi testimonianza della cronaca dell’epoca.
Nato e cresciuto a due passi da tanto tripudio aureo, Leonardo Pivi non può non aver subito il fascino di questa tecnica apparentemente lontana dalla contemporaneità e invece altrettanto adatta a eternare il tempo, a trasformare la cronaca in storia. Proprio perché considerata “arte minore” rispetto alla pittura e alla scultura, il mosaico assume il ruolo della narrazione popolare e della testimonianza. Nel presente Pivi non si discosta da tale meccanismo, enumerando i personaggi contemporanei (soprattutto quelli più contraddittori) e facendo dialogare la nobile tecnica antica con i media fugaci ed effimeri di oggi. Non per nulla gli ultimi lavori sovrappongono alla tipica accumulazione di tasselli il collage con la carta stampata, molto incline al clima delle prime avanguardie, Dada e Surrealismo.
Schmidlin, come si è detto, punta all’allegoria comica dei caratteri umani, i cui lineamenti e tratti finiscono per diventare simboli di un modo di essere oltre le righe. I suoi modelli di riferimento vanno rintracciati soprattutto nella cultura figurativa del nord Europa, nei modi caricaturali di Bosch e di molta pittura fiamminga.
I personaggi appartengono al bestiario contemporaneo delle stranezze e, come in altri precedenti illustri della storia, rompono con la classicità intesa come raggiungimento dell’armonia. Transex, Drag Queen, inquietanti vecchiacci, sembrano parenti lontani dei mostri di pietra nel giardino di Bomarzo, commissionato nel 1522 dallo stranissimo principe Vicino Orsini, condottiero di ventura, sposo di Giulia Farnese, morta giovane a cui venne dedicato il parco sembra ispirato, sottotraccia, all’opera letteraria di Francesco Colonna, il sogno di Polifilo.
Misteriosi gli autori delle sculture che popolano il parco – probabile di alcuni Bartolomeo Ammannati- è comunque certo che Bomarzo abbia rotto le geometrie rinascimentali per la casualità, l’effetto scenografico, la bizzarria strutturale che nel ‘900 ha ispirato diverse opere di Salvador Dalì. Un altro esempio che andrebbe ricondotto alla tradizione figurativa di cui Schmidlin è figlio è la villa Palagonia di Bagheria, superba ed eccentrica dimora considerata da molti illustri viaggiatori, che considerano come”il luogo più originale che esiste al mondo e famoso in tutta Europa”. La sua costruzione ebbe inizio nel 1715 per volere di don Ferdinando Gravina e Crujllas, principe di Palagonia; ne fu incaricato il frate domenicano Tommaso Maria Napoli, architetto coadiuvatore del senato di Palermo con la qualifica di “ingegnere militare”. L’intero complesso monumentale con le decorazioni e gli arredi interni ed esterni che hanno resa celebre la residenza di Bagheria è chiamata villa dei mostri per la presenza di statue in pietra tufacea raffigurante animali fantastici, figure antropomorfe, statue di dame e cavalieri, musicisti e caricature varie. Considerate a stento dagli storici prenovecenteschi opere d’arte “maggiore”, questi luoghi contengono esempi dove è più facile mescolare il sacro al profano e dove il kitsch viene utilizzato, anzi tempo, come categoria estetica.
La ricerca di modelli eccentrici nella storia offre dunque le motivazioni al perdurare del concetto e della sua influenza oltre il tempo. Neanche troppo paradossalmente, pescando “lontano”, Leonardo Pivi, Paolo Schmidlin si assicurano una salda esistenza nella contemporaneità.
I colori della primavera per non dimenticare
Hurrà Juventus n.10, 2008, pag. 12
Luca Beatrice
Gli amici calciofili e i tifosi juventini mi perdoneranno se questa volta la prendo alla lontana, sperando di non indulgere troppo in una lezione di storia dell’arte. Fin dall’antichità l’arte del mosaico, è stata nei secoli, quella che più si è avvicinata al bisogno e al desiderio di narrazione, insito nella natura umana. Adoperato inizialmente per il suo potere meraviglioso e incantatore più negli edifici civili, ad esempio in terme e dimore private, che negli edifici di culto, il mosaico fiorisce nella Ravenna paeolocristiana intorno al V secolo.
Forse per la sua posizione geografica, una porta d’oriente al pari di Venezia, Ravenna vede l’irradiarsi dell’influenza bizantina, soprattutto per l’impiego dell’oro e dell’argento nei punti strategici dell’architettura musiva. Un’arte che sviluppa, unitamente alle soluzioni decorative più estreme e virtuosistiche, la tendenza al racconto, a farsi testimonianza della cronaca dell’epoca. Questa tecnica, questo linguaggio, apparentemente lontani dalla contemporaneità, sono invece i più adatti a rendere eterno il tempo e trasformare la cronaca in storia.
Proprio perché considerata “arte minore” rispetto alla pittura e alla scultura, il mosaico assume il ruolo della narrazione popolare e della testimonianza.
Il mosaico è infatti destinato a raccontare e conservare la memoria.
C’era un ricordo da onorare e un esempio da lasciare in eredità alle generazioni presenti e future. Un’immagine che dicesse chi fossero Alessio e Riccardo.
Due sentieri interrotti, ma vivi e presenti.
Due splendenti comete, le vedi ogni notte se alzi gli occhi al cielo.
Due gioventù cui sorte avversa ha impedito di crescere.
Nasce così il mosaico di Leonardo Pivi scultore romagnolo tra i migliori della sua generazione.
Non un monumento commemorativo, ma un’opera d’arte piena di gioia e speranza.
Non la monocromia sorda del bronzo, il biancore funereo del marmo, ma un gioco di mille colori cangianti a seconda della luce, e delle sue rifrazioni. Cosicché tutti i ragazzi che giocheranno a Vinovo incroceranno con lo sguardo i due piccoli campioni in bianconero che ora corrono chissà dove, da qualche altra parte.
Ci mancano tanto, eppure sappiamo che dentro di noi non se ne andranno mai.
Memorabilia musiva
catalogo “Corpo estraneo”, 2004
Luca Beatrice
Fanno degli strati di un vetro bianco, brillante per le finestre dello spessore di un dito, li tagliano con un ferro caldo in piccoli frammenti quadrati, e li coprono da un lato di foglia d’oro, poi d’uno strato di vetro molto luminoso; quindi li giungono insieme sopra un piano di ferro, coperto di calce o di ceneri e li cuociono nelle fornaci trasformandoli in lastre trasparenti. Questi vetri, utilizzati nei mosaici, producono un effetto molto decorativo.
Teofilo, Schedula diversarium artium, XII secolo*.
Apparsa ai più come un miracolo di tecnica, l’arte del mosaico è stata, nei secoli, quella che più si è avvicinata al bisogno e al desiderio di narrazione, insito nella natura umana fin dai graffiti nelle Grotte di Altamira. Rispetto però alla pittura, il mosaico si ritiene appartenere al novero delle arti minori o decorative. Dei pittori, talora anche in epoche lontane e oscure come l’Altomedioevo, conosciamo nome e cognome o almeno scuola o bottega. Il mosaicista è, il più delle volte, un anonimo artigiano inserito in un’équipe di lavoro all’interno di un cantiere. L’équipe di lavoro – racconta Xavier Barral i Altet – ha una struttura gerarchica. Alcuni eseguono le figure e le composizioni più elaborate, mentre altri sono specializzati nel riempire i fondi o nel realizzare le composizioni geometriche o ornamentali. Quando il mosaico è firmato, l’esistenza di una gerarchia risulta direttamente attestata, poiché sovente si tratta del nome del capo bottega, testimoniando l’importanza della bottega più che del singolo mosaicista.
Adoperato inizialmente per il suo potere meraviglioso e incantatore più negli edifici civili, ad esempio in terme e dimore private, che negli edifici di culto, il mosaico fiorisce nella Ravenna paleocristiana intorno al V secolo. Il grande sviluppo della città si deve all’imperatore Onorio, che nel 402 trasferisce la sede del potere da Milano a Ravenna, facendone la nuova capitale dell’impero d’occidente. La sorellastra di Onorio, Galla Placidia, intraprende la costruzione di numerose chiese in città, che ricevono una ricchissima decorazione musiva e soprattutto ne rappresentano le tendenze più innovative. Le testimonianze oggi conservate di questa fioritura sono il mausoleo di Galla Placidia nell’oratorio di San Lorenzo; il battistero degli Ortodossi decorato alla metà del V secolo con un mosaico caratterizzato da grandi figure su fondo blu; la basilica fatta costruire da Teodorico, re degli Ostrogoti, e dedicata al Salvatore, dove nel IX secolo furono trasferite le reliquie di Sant’Apollinare (oggi Sant’Apollinare Nuovo); la chiesa di San Vitale, fondata dall’arcivescovo Ecclesio alla fine del VI secolo dove il Cristo Pantocrate troneggia al centro dell’abside accanto al fondatore della chiesa, mentre Cristo gli porge la palma, simbolo del suo martirio. I simboli imperiali sono presenti invece nella celebre raffigurazione di Giustiniano accompagnato da dignitari laici ed ecclesiastici e dall’imperatrice Teodora con il suo seguito, mentre sull’arco trionfale sono rappresentate le città di Gerusalemme e di Betlemme. Infine, due anni dopo San Vitale, venne consacrata Sant’Apollinare in Classe, di cui attualmente si conserva il mosaico absidale con l’immagine del santo in preghiera.
Forse per la sua posizione geografica, una porta d’oriente al pari di Venezia, Ravenna vede l’irradiarsi dell’influenza bizantina, soprattutto per l’impiego dell’oro e dell’argento nei punti strategici dell’architettura musiva. Un’arte che sviluppa, unitamente alle soluzioni decorative più estreme e virtuosistiche, la tendenza al racconto, a farsi testimonianza della cronaca dell’epoca. Nato e cresciuto a due passi da tanto tripudio aureo, Leonardo Pivi non può non aver subito il fascino di questa tecnica apparentemente lontana dalla contemporaneità e invece altrettanto adatta a eternare il tempo, a trasformare la cronaca in storia.
Sempre più spesso ci troviamo a constatare, se non a lamentarcene, di essere sottoposti a un surplus di immagini: il bombardamento della nostra retina, e di conseguenza del nostro cervello, come condizione simbolica della nostra contemporaneità. Certo, gli artigiani ravennati non disponevano di giornali, tv e neppure di internet, ma già ai loro tempi c’era chi predicava la necessità di un’iconoclastia, magari con intendimenti diversi rispetto a oggi. Come in ogni epoca (nella sua epoca) ogni opera d’arte è stata a suo tempo contemporanea, così qualsiasi riflessione che implicasse il tema della modernità ha visto il presente nelle vesti di accesso tecnologico e il passato come rifugio e conservazione di un precedente stato di natura elevato a simbolo nostalgico.
Per diversi anni Leonardo Pivi non si è posto il problema della contemporaneità, consapevole che si trattava di un falso problema. Altri stabiliscano l’attualità di un artista a partire dal mezzo: a Pivi non gliene mai importato nulla e ha continuato a giocare con la scultura e la decorazione, il disegno e il mosaico pur sapendo che un qualsiasi video o un’istantanea fotografica sono legittimati in partenza come “opere d’arte contemporanea”. Questo nuovo ciclo di micromosaici, che Pivi inserisce all’interno di una rivista, si pone come un ossimoro. Materiale cartaceo destinato a celere consumazione vs. materiale prezioso che suggerisce il concetto di eternità. L’attuale, così attuale da portare impressa ed evidente la data come un timbro di scadenza, contro la memoria dell’antico desunta dai libri di scuola. Immagini del tutto contingenti trasformate in icone già santificate dalla voluttuosa luccicanza delle tessere d’oro.
Una rivista (d’arte, di passatempi, di sport, di spettacolo) nasce per fare cronaca. Chi legge le riviste cerca sulla copertina un’immagine di assoluta attualità. Valentino Rossi non è solo il super campione della Moto GP, ma anche il personaggio irridente e scanzonato che conosciamo, Vasco Rossi non è solo l’italica rockstar in grado di radunare folle oceaniche ai suoi concerti ma anche l’ex ribelle il cui passato attrae forse più del presente. E se Michael Schumacher è l’inesauribile macinatore di successi (è lui che ha riportato la Ferrari a trionfare dopo ventuno anni, per questo non ci stancheremo di vincere) il povero Marco Pantani sembrava dimenticato da tutti e solo la tragica fine lo ha riportato agli altari delle cronache.
Pochi conservano i giornali, a differenza delle opere d’arte di cui ci si prende cura con massima devozione. Conservazione dei beni artistici è una materia universitaria, invece le vecchie emeroteche stanno per essere soppiantate da archivi in rete, efficaci, rapidi e soprattutto molto meno ingombranti.
Le copertine delle riviste finiscono per assomigliare sempre più spesso a memorabilia. Moda assai diffusa nel mondo anglosassone (le principali case d’asta organizzano diverse battute annue dedicate a oggetti strani, cose appartenute a personaggi famosi, reperti di modernariato, autografi, foto di famiglia ecc…), quello dei memorabilia è un gusto che va di pari passo con il collezionismo più ossessivo e feticista, che si sente rassicurato dall’entrare in possesso di quell’unico pezzo che manca per completare il proprio mosaico. Ancora tessere e ancora mosaici. L’albo esaurito che mi serve per finire la collana a fumetti del mio eroe preferito, il numero di Flash Art che non ho ricevuto in abbonamento e che mi manca per finire la collezione.
Leonardo Pivi incastona mosaici dentro le riviste, che ormai non sono più semplici oggetti cartacei ma assumono il carattere di memorabilia musivi. Infatti non si possono leggere, come a nessuno verrebbe in mente di sfogliare la prima edizione di un libro raro, che gli si sfarinerebbe tra le mani.
Da anni si discute del rapporto a elastico tra l’arte e la vita: ogni tanto si allunga, altre volte si accorcia. Quando Robert Rauschenberg nel 1956 realizzò Bed, un vero letto ricoperto di pittura, un letto non più letto ma quadro, qualcuno gridò all’affronto perché la pittura in questo modo stava subendo la perdita di sacralità. Quell’aura sottratta all’arte dal ready made avrebbe dovuto risparmiare almeno la più nobile delle Fine Arts, la pittura. Poi, a metà degli anni ’90, Tracey Emin ha esposto Bed, il suo letto con le lenzuola sporche, i preservativi (usati?), tracce di malessere e di tentato suicidio. La vita dell’artista come cronaca quotidiana da servire in pasto al pubblico, sfruttando lo stesso meccanismo implicito nei giornali di gossip.
A Leonardo Pivi invece non interessa né l’antica provocazione dell’oggetto decontestualizzato e neanche quella più contemporanea dell’ossessione per l’autobiografismo. Pivi, da buon artista ravennate a cavallo tra V e XXI secolo, racconta la vita degli altri, sostituendo la carta stampata con un piccolo contributo d’eternità.
* Citato, come molte informazioni riportate di seguito, da Xavier Barral i Altet, “Il mosaico parietale”, in La pittura in Italia. L’Altomedioevo, Electa, Milano 1994, pp. 462-479.
Laboratorio materiale
catalogo della mostra Galleria Astuni, 2001
Luca Beatrice
…C’è anche una bella lettera di Leonardo Pivi in cui mi illustra i nuovi mosaici: “I soggetti sono rappresentati a mezzo busto, la tecnica musiva è ibrida, cioè le regole del mosaico parietale e pavimentale si fondono in uno stile ricco di contaminazioni. Per ispirarmi, guardo immagini fotografiche dalle riviste, dai quotidiani, le posso scaricare da Internet. Solitamente i soggetti non sono scelti per un mio particolare interesse o venerazione, ma è del tutto casuale. Quello che più mi interessa è che il soggetto una volta scelto, possa suggerirmi soluzioni poetiche sempre nuove. Per esempio, attraverso lo studio della pelle elaboro scale di materia e colore per rappresentare gli incarnati, oppure i difetti o le particolarità anatomiche quali le labbra, il colore e il taglio dei capelli, oppure trovo interessante rappresentare le infinite possibilità cromatiche che può suggerirmi l’iride di un occhio. Mi piace non solo rappresentare la forma con il colore, ma anche lo stato di salute o di malattia della carne (un occhio affetto da cataratta mi può suggerire l’utilizzo di un materiale particolare che viene estratto solamente in Brasile al posto di una comune pasta vitrea). Con la tradizione musiva modifico geneticamente il linguaggio fotografico pietrificando il colore con una sensibilità poeticamente pittorica. Trasformo i codici standard dei pixel che costituiscono le immagini fotografiche con tasselli di pietra o quant’altro, fabbricandoli uno ad uno. Fare un mosaico o dipingere è la stessa cosa. Ho bisogno di studiare l’immagine che intendo elaborare, proprio come fa un tennista prima di cominciare la gara: anche lui deve infatti studiarsi non solo l’avversario, ma anche i materiali, le superfici (terra rossa, erba, sintetico) per prepararsi mentalmente ed adattare al meglio le sue potenzialità. Per me il mosaico è una sorta di pittura pietrificata. La sostanziale differenza è data dal colore, che essendo solido non può essere mai mescolato a piacimento. Nel mosaico i materiali (marmi, pietre dure, madreperla, pietre calcaree) ti costringono ad usare scale colore fisse. Quindi ti impongono le scelte cromatiche per costruire la forma, mentre in pittura è esattamente il contrario. Ma veniamo ora ai soggetti che ho scelto; queste immagini mitiche, molto Pop Art, diventano col mosaico molto dure e nervose perché si crea un affascinante cortocircuito. A me interessa rivestire la foto estrapolata con un’identità musiva del tutto nuova. Il processo di ribaltamento formale esprime uno straniamento che va oltre il già visto sui media, trasforma l’immagine fotografica in qualcosa di spiazzante, perché l’unicità della tecnica a mosaico, così modernamente antica, si contrappone in maniera del tutto originale alla riproduzione in serie. Il concetto Pop con il mosaico viene per me espresso al contrario”.
XX d’oro e d’argento
catalogo, Galleria Silbernagl Undergallery, 2001
Luca Beatrice
Nella vecchia scuola di stampo cattolico degli anni sessanta i maestri erano soliti utilizzare un famoso episodio della storia romana che serviva da parabola per dimostrare come la virtù morale fosse più importante dell’oro.
La signora Cornelia “madre dei gracchi” (i due giovanotti Caio e Tiberio tornarono, con alterne fortune, alle cronache dei loro tempi per servigi politici e militari) esponeva i figli come i suoi gioielli di fronte alle amiche vanitose impegnate a sfoggiare monili e quant’altro necessario ad abbellire i loro corpi matronali. Che la bontà possa appagare il desiderio quanto il lusso è concetto piuttosto fragile e discutibile. Marilyn Monroe diceva che i diamanti sono i migliori amici delle ragazze, lasciando chiaramente intendere che qualsiasi donna è disposta a fare dei “sacrifici” commisurati all’importanza e alla preziosità del gioiello propostole, insomma dono contro dono.
Se il gioiello è un lusso, quanto più esclusivo e ricercato, anche l’arte risponde a questo bisogno di staccarsi dalla normalità proponendo il possesso di oggetti non condivisibili con la maggior parte del genere umano.
“L’arte è uno shopping” esclusivo diceva Jeffrey Deitch perché si sottrae alla produzione in serie della moda e degli accessori, e si propone come il più raffinato indicatore di prestigio sociale, almeno quanto un collier di pietre prezioso disegnate da un orafo di fama mondiale.
L’unione di questi due universi così voluttuosi, da una parte ipoteticamente può raddoppiare il valore dell’oggetto in questione (bello, ricco, prezioso e soprattutto unico), ma per altro verso insinua un ragionevole dubbio: che cosa distingue, infine, un’opera d’arte con tutto il suo portato di sacralità e aura, da quell’altro genere di creazione che, per quanto prestigiosa, non può non essere inscritto alla categoria delle arti applicate (o arti minori)?
Nella storia dell’arte il cimentarsi con il gioiello (a meno che non si citi il genio di Benvenuto Cellini) è, per tradizione, un’esperienza laterale, la cessione di un proprio segno che l’orafo o l’artigiano avrebbe eseguito in quanto esperti di materiali di cui l’artista forse non è neppure a conoscenza. Questo non è il caso di Pivi, scultore di perizia assoluta “con le mani”, il quale non si limita a tradurre la propria esperienza di conoscitore della materia in dimensione ridotta, ma che ha ideato, progettato e realizzato interamente da solo questa serie di gioielli unici e irripetibili non definibili in altro modo che opere d’arte.
Il valore aggiunto, il quid, l’anima che riempie le cose e le trascende in un’altra dimensione, sta’ nell’approccio di Pivi all’opera gioiello: ogni materiale ha un suo significato storico da integrare nel rispetto di un equilibrio micro cosmogonico; l’oro è prezioso in sé, lo sanno tutti, ma qui acquisisce eternità ulteriore se accostato all’elemento organico e caduco, se perché inserito in un ciclo vitale da cui l’artista filosofo trae ispirazione. Così come la pietra, indissolubile della terra.
Siano amuleti, segni apotropaici, talismani, feticci, queste creazioni di Leonardo Pivi sono opere d’arte e non solo gioielli perché uniscono il valore del materiale al significato dell’immagine. Queste cose vogliono dire qualcosa, non basta osservare che sono belle. Questi sono i miei gioielli, torniamo a Cornelia, perché posseggono la virtus e non solo la lux.
Dizionario della giovane arte italiana
Giancarlo Politi editore 2003
Beatrice Buscaroli Fabbri
Leonardo Pivi si rifà a metodologie antiche di lavoro, ottimo mosaicista, sensibilissimo scultore, s’impadronisce di linguaggi espressivi del passato, utilizza il potere evocativo e inquietante del mondo primitivo, si lascia prendere da veri eccessi d’ira artistica che accendono opere di una durezza visiva o concettuale al limite della sopportazione: è il primordiale che affiora, la sensibilità che attraversa percorsi inconsueti, inciampando e reagendo con un’energia furiosa.
Generazionale
catalogo mostra 2001
Beatrice Buscaroli Fabbri
Leonardo Pivi sconcerta. È il più forte impatto visivo del suo lavoro a creare questa prima impressione, seppur attenuatasi negli ultimi anni. Sono opere spiazzanti. spesso violente, che sottendono aspetti ritualmente minacciosi, con citazioni arcaiche relative ad iconografie sacrificali. Pivi si rifà a metodologie antiche di lavoro, ottino mosaicista, sensibilissimo scultore (la qualità scultorea di Frutto della ragione presente in mostra è stupefacente), sia nel minimale rapporto con le testine (scolpite da sassi di fiume) che delineano il quadrante di un immaginario orologio senza lancette. Si impadronisce di linguaggi espressivi del passato, utilizza il potere evocativo e inquietante del mondo primitivo, si lascia prendere da veri eccessi d’ira artistica che accendono opere di una durezza visiva o concettuale al limite della sopportazione: e il primordiale che affiora, la sensibilità che attraversa percorsi inconsueti, inciampando e reagendo con un’energia furiosa.
Progetto scultura 2011
Beatrice Buscaroli Fabbri
Leonardo Pivi produce lenergia di cui l’artista sente il bisogno. Dello scultore Pivi ha l’urgenza manipolatoria dei materiali, la vorace curiosità per la loro estrema diversità- dal mosaico al video , dal marmo bianco di Carrara agli sterpi raccattati nell’alveo del fiume dopo la piena – l’abilità di saper trarre da loro la qualità migliore, di volta in volta. Primordiale e raffinato , appunto.Il fondo di sgradevolezza presente in molte delle sue opere,una specie di stridio, è sempre mediato dalle proporzioni addolcite , dall’assenza di urti, dall’attenzione e dalla cura nei montaggi , dallo scolpire vero e proprio secondo la miglior tradizione , dell’assemblare con perizia antica i tasselli , anche minimi , del mosaico, o dall’allontanarsi del tutto dall’opera utilizzando la rappresentazione fotografica o video.
Nient’altro che scultura
catalogo Carrara Biennale, Francesco Poli, 2008
Gabriella Serusi
La ricerca artistica di Leonardo Pivi è un dialogo continuo tra sapienza classica della scultura e sensibilità contemporanea. Pivi è nato a Cesena, in Romagna, non lontano da quell’area che ha per centro Ravenna e che rappresenta la culla della civiltà musiva italiana. Di quel fare arte, lo scultore ripropone, oggi, soprattutto la metodologia operativa, l’attenzione per il dettaglio, la cura formale raggiunta con il lavoro paziente, la passione per l’artigianalità che è anche sinonimo di qualità dell’opera.
Una forza primordiale ed arcaica percorre i lavori di Leonardo Pivi: sculture in cemento armato, sassi scolpiti ma anche immagini in computer graphic o interventi sul corpo che hanno come comune denominatore la carica fantastica di un ipotetico immaginario medioevale, accanto ad una spinta verso alterazioni e mutamenti propri dell’universo massmediale.
Leonardo Pivi ama far dialogare – anche in modo provocatorio – la nobile tecnica antica con i media fugaci ed effimeri di oggi; integra perfettamente l’ambito artistico legato ad un fare materiale (scolpire, disegnare) con i mezzi espressivi freddi come video, diapositive, ready –made, giungendo ad una sintesi in grado di condurre energie che attingono a una dimensione atavica. Le sue opere sono spesso pervase da una carica sottilmente ironica, da elementi mitici, simbolici, religiosi, che convivono accanto a personaggi e figure proprie del mondo dell’infanzia: pinocchi e puffi inquietanti, immersi in un’operazione di straniamento e di alterazione, generata dagli stessi meccanismi dell’universo onirico.
In mostra a Carrara, viene presentato uno degli esempi più felici di questa commistione tra classicità e attualità.
Un piede scolpito finemente in marmo bianco secondo un gusto iperrealista, fa bella mostra di sé mentre tiene alzato il dito medio in segno provocatorio. L’idea classica della statua, della sua perfezione aulica, dell’armonia delle forme, simboleggiata qui da una parzialità del corpo (piedi e mani erano particolarmente importanti nella storia della statuaria) viene stravolta attraverso un’operazione linguistica irriverente. Abilmente, Pivi intercetta sul piano sociale le ricadute, i significati del gesto estetico.
In questa prospettiva, l’opera d’arte si configura come un indice comportamentale; non solo quale luogo e momento ideale di riflessione ma anche, e soprattutto, come spazio di dissenso aperto.
Viva l’Italia
Fabio Cavallucci
Estetica della politica, intervista di Davide Ferri
Tratto da “Corriere D’Italia” G. Astuni 2009
1.
Mentre ero al cinema a vedere Videocracy, l’altra sera, pensavo a quanto è difficile trovare forme di resistenza (anche private) a questa specie di “fascismo estetico” di cui parla il film. Mentre guardavo Videocracy pensavo anche alle domande che avrei potuto farti in occasione di questa breve intervista, non ci conosciamo, ma mi sembra che tu sia uno di quegli artisti che all’interno di quel flusso di immagini che ci ha come travolti, tramortiti, abbia provato a metterci le mani, se non altro per provare a spezzarne il ritmo, creando come dei gorghi temporali, “eternando il frammento”, come dice Marco Senaldi, attraverso un medium inattuale come il mosaico. Per te dunque lavori come quelli che hai fatto utilizzando le copertine delle riviste hanno anche un valore politico?
C’è un sottile humor politico, drammaticamente ricercato, lo ammetto.
Mi interessano più i volti dei politici che la politica, per essere più precisi “l’estetica della politica” da cui riprendo l’espressività congelata delle facce finte, rifatte, dipinte e ritoccate, abbinate alle frasi retoriche dei giornali negli strilli di copertina, creano un mix di elementi comunicativi che spesso mi seducono.
Il contrasto tra un supporto “usa e getta”, la serialità di queste immagini omologate e i contenuti standardizzati di queste riviste sono, la cornice ideale per inserire violentemente un corpo estraneo come un’opera fatta a micromosaico o piccole sculturine, che riporta ad una dimensione atemporale in contrasto con il primordiale messaggio del mezzo.
2.
Ho sentito più volte fare riferimento a quella specie di malsano individualismo che secondo molti affliggerebbe gli artisti italiani e sarebbe una delle cause di quella incapacità di fare sistema, di agire politicamente, che è uno dei problemi dell’Italia. Una volta, ad una conferenza, mi ha colpito una frase di Pier Luigi Tazzi che diceva che il bozzolo che protegge gli artisti italiani ha anche a che fare anche con la storia e la tradizione. Pensi che in quest’ottica possa essere letta anche la tua scelta di usare il mosaico?
Non sono convinto che il bozzolo sia protettivo, al contrario ritengo che la storia dell’arte italiana invece di proteggerci ci schiaccia, perché imprigiona l’artista mentalmente in una quantità infinita di cose da conoscere, valutare,ed imparare che spaventano.
Gli artisti italiani (tranne alcune eccezioni, quali penso di fare parte) da decenni non si preoccupano più di avere un legame forte con la propria tradizione, questo legame è durissimo da mantenere, sia fisicamente che mentalmente. Forse è più facile allinearsi ad un’arte più internazionale libera da vincoli storici e di tradizione.
3.
Hai mai pensato di andare a vivere in un altro paese? E perché hai scelto di abitare lontano dai grandi centri? Nel luogo in cui vivi, Riccione, c’è qualcosa in cui ti riconosci e che per te ha ancora a che fare con l’Italia? Si può ancora parlare di un’Italia periferica, provinciale? E che forma di vitalità riesce ad esprimere?
Non sono finito per caso a Riccione, sono romagnolo di nascita e sento un forte legame verso la mia terra. I sapori, gli odori e soprattutto i colori, tutto questo mi crea dipendenza, ma non solo, sono parte integrante del mio lavoro che si basa su un rapporto diretto con la natura.
Un rapporto fatto di osservazione, scoperte, prelievi, e tranquillità mentale che solo in precisi e ricercati luoghi riesco ad avere.
L’artista è artista ovunque, non è il luogo che fa l’artista.
Sono sempre stato consapevole del fatto che è durissimo per un artista vivere in provincia, le opportunità che offre una metropoli sono molto maggiori sotto tutti i punti di vista, vivendo però nell’era della “rete” le distanze si sono ridotte, questo mi consola un po’.
4.
Nel libro New Italian Epic, Wu Ming afferma che il fatto più rilevante dell’ultimo decennio di letteratura italiana è la comparsa di un gruppo di scrittori (Saviano, De Cataldo e Genna ad esempio) che riesce a fare i conti con la turbolenta storia e con l’attuale situazione dell’Italia. Esistono a tuo avviso opere d’arte che riescono ad esprimere un atteggiamento analogo rispetto all’Italia, al di là di un generico “impegno politico”?
Penso che l’opera d’arte possieda un valore assoluto che travalica ogni contesto che sia politico o no. L’essenza dell’opera è puramente artistica, al di la di un “impegno politico” individuale vissuto dall’artista.
Esistono in Italia artisti, che al pari degli scrittori da te citati, esprimono nel proprio lavoro un atteggiamento simile.
Ci sono tantissime opere dalla presenza politica imbarazzante, ne cito una dal passato il “Quarto stato” di Pellizza da Volpedo, opera straordinaria, basta questa per convincermi che l’atteggiamento distratto della politica nei confronti dell’arte contemporanea in generale vada rivisto.
La politica non ha ancora compreso che sono le opere di quello spessore culturale che ci guardano e giudicano nel presente quello che facciamo.
Una nuova luce nel terzo millennio
Ulisse Magazine – Alitalia N°355 giugno 2014
Alessandro Vergallo
Ancora adolescente, il destino lo vuole artista a tutti i costi. A scuola, nella sua Romagna, alcuni maestri gli dicono che i suoi disegni sono concepiti per diventare sculture. L’accademia belle arti di Bologna e un lungo soggiorno a Ravenna gli fanno scoprire l’arte del mosaico.Visita il sito di Piazza Armerina (En): gli affreschi, le lapidi e le sculture in marmo lo folgorano.
Qui, assorbe la bellezza, la perfezione la morbidezza e la sinuosità delle forme del gusto classico e neoclassico. L’artista romagnolo lavora tutti i materiali ma predilige quelli “ex viventi” come coralli conchiglie, ossa e pietre fossili. “Non cerco la bellezza e la purezza dei materiali per le mie opere”, afferma Leonardo, “li scelgo e li uso solo per la loro natura e per l’efficacia che hanno nella loro applicazione. Alcune volte i materiali nobili non servono>, continua l’artista, “perché non danno all’opera la luminosità giusta e gli effetti particolari che io voglio ottenere. Per questo motivo spesso utilizzo materiali Impuri, quasi insignificanti, che, a volte, possiedono una certa volgarità”.
Nel 2007 la morte di Pier GiorgioWelby, impegnato per il riconoscimento legale del diritto all’eutanasia scuote Leonardo, tanto da dedicargli un ritratto, rispolverando l’arte del mosaico. Nello stesso anno realizza altri ritratti dedicati ad altri “eroi del dolore”come Christopher Reeve, attore americano, costretto alla paralisi dopo una brutale caduta da cavallo. Dinamismo, torsione e movimento dei corpi evocano la bellezza assoluta e divinizzante dell’antica Grecia. Nelle sue opere non mancano i riferimenti contemporanei, come bambole gonfiabili e Crash Test Dummies. “Anima Mundi”, scultura imponente in marmo di Carrara.“la Musa della rosa”, bozza di una statua in marmo di Carrara in fase di realizzazione e “Platonic love”, un colosso in gesso che da il titoloalla mostra, allestita presso lo spazio Gluck50 di Milano visitabile fino al 29 luglio prossimo, sono le ultime opere di Leonardo Pivi il quale, grazie ai suoi studi sulla luce, intende modernizzare il concetto classico e neoclassico di bellezza del corpo umano nel terzo millennio.
Una nuova arte del novecento
Scultura et mosaico. 2014, Catalogo pag 32
Alfonso Panzetta
“Leonardo Pivi (classe 1965), potente inventore di immagini sospese tra l’onirico e il surreale,originalmente derivate dall’universo mediatico contemporaneo. Nella Figura in cemento “in silenzio religioso” del 1992, Pivi utilizza il mosaico lapideo per connotare l’abbigliamento del personaggio disteso in un’aura di oscura sacralità, che nel ritmo semplice e ripetitivo dell’andamento musivo prende l’evidenza di una cotta metallica da armatura siderale.”
Krobylos catalogo biennale del disegno Rimini 2014
Opera “faunistico Marino” 1988 olio su carta 125×125
Massimo Pulini
Si può affermare che in quest’opera giovanile siano racchiusi gran parte degli elementi che si sono successivamente sviluppati lungo i cicli creativi dell’artista romagnolo. Il titolo stesso del dipinto palesa l’intento di un repertorio, simbolicamente incalcolabile, delle presenze nascoste entro la teoria di macchie, segni e forme che affiorano alla vista, ma che allo stesso tempo si occultano, negli anfratti di questo labirintico monocromo.
Lo stesso processo esecutivo del dipinto deve aver incontrato il piacere ludico di un’epifania automatica delle parvenze. In qualche misura i tre regni, animale vegetale, minerale, sono presenti senza che nessuno prevalga sugli altri. Il fascino di questo equilibrio caotico si avverte sia da una lettura ravvicinata, lenticolare della superficie pittorica, sia da uno sguardo d’insieme. Nell’inarrestabile vortice percettivo di questo paesaggio Leonardo pivi ha come innescato un dispositivo che continua a generare e a fagocitare visioni.
Mostro della terra
Scultura Mosaico, Catalogo marsilio pag 84, 2017
Laura gavioli
Un meteorite o un semplice reperto scovato nell’angolo buio dello studio:Leonardo Pivi che si è espresso costantemente con il mosaico, non manca l’occasione di mostrare la sua conoscenza dei materiali musivi più preziosi, affinche questo “mostro della terra”possa ricollegarsi alla nostra fantasia. E rivelarci la sua vena un un po’ cinica e anche un po’ macabra di scultore che non si ferma, ma anzi è incuriosito davanti ad una forma complessa e imprevedibile che sfugge a una normale categoria d’appartenenza.
Con questi presupposti l’opera recupera una totale libertà di forma e di significato ed è pronta ad accogliere una profusione di pietre bellissime che l’artista conserva nello studio e che proprio per questa scultura ha voluto inserire negli occhi grandi del misterioso oggetto/personaggio della terra. L’opera si inserisce così perfettamente nella linea della ricerca scultorea del suo autore e non mancherà di stupire per l’originalità e la coerenza delle sue scelte.
Loro
catalogo, 1991
Claudia Colasanti Canovi
Leonardo pivi assume meticolosamente la pratica antica del Mosaico e contemporaneamente lavora, sempre manualmente, con l’estremamente piccolo (e povero) Ghiaia, Ossicini, piccoli sassi che lui libera dalla già poca materia trasformandoli in testine e scheletrini; un piccolo mondo naturale, agghiacciante ed ironico al tempo stesso si sedimenta lentamente sino a divenire un sarcastico teatrino e preziosa ed elaboratissima composizione speculare.
Anima mangia Anima
Catalogo 1992
“Cattiverie”
Claudia Colasanti Canovi
Senza indecisione, serrati e complici, colpiscono al cuore gli scarti ormai svelati del rimpianto, del castigo e del rimorso.
Un’inventario del dolore represso e non manifestato, nascosto dietro un ghigno trattenuto ed in attesa di riscatto.
Ogni oggetto di leonardo, sia solo che in gruppo, è una breve messinscena <morale>, appesantita dai segni di una coscienza ferita e da una memoria fitta di tragedie del passato. I gruppi di figura rimandano a sarcastici teatrini di maschere deformi e caricaturali, i più solitari invece appaiono come incarnazioni totemiche di anime in agonia.
“Anima mangia Anima” è una testa di creta dalla forma ovale che contiene un altro volto nella cavità della bocca; i suoi tratti sintetizzati e l’aspetto ieratico sembrano provenire da lontano, da un mondo tribale e magico che leonardo assume ormai da tempo come rigoroso travestimento di un inconscio tormentato.
Il tema universale della “lotta del bene contro il male” è presente in ogni lavoro, dalle infinitesimali testine di sasso all’imponente “ultima cena” di creta.
A terra dodici teste più una con un imbuto in bocca, con i volti dall’impressione stupita, cattiva, dolorante, e sdegnata, testimoni di una leggenda metaforica e fuori dal tempo. Maschere di Santi o mascalzoni, deformi, capaci solo apparentemente di celare la natura della loro anima e favorevoli solo ad assumere espressioni di altri stati d’animo. Questo passaggio di leonardo da dentro e fuori alimenta una stratificazione di segni tribali e primitivi su iconografie e archetipi successivi e più <colti>.
L’imbuto dell’”Ultima cena”, (che convoglia la luce sulla testa, nella gola, nella bocca dell’ipotetico cristo) è oggetto intermediario e non ha bisogno di manipolazioni, mentre le teste nascono da compressioni e torture che leonardo infligge alla Materia.
Quando la creta diventa vittima di uno sguardo diffidente, cinico e crudele, l’immagine si trasforma da ritratto –maschera in identificazione di un’idea del mondo.
Figure che suggeriscono cattiveria e stupore, maschere dell’anima che in questo caso, invece di coprire volto e corpo, lo svelano e lo denudano, esprimendo definitivamente i più profondi e tormentati sentimenti.
E il banale diventò eccezionale
La voce Sabato 30 novembre 2013 pag 4
Davide Brullo
“Si parla di un autore, Pivi, Cesenate, che, alla moda di un Cattelan, unisce l’aulico all’ironico, la sapienza tecnica al pop. Dicono che “riesce a convertire l’effimero in eterno, il banale in eccezionale, lo scarto in reliquia”. Boh. Se devo fidarmi dei critici, scopro che “Leonardo Pivi sconcerta” perché le sue <sono opere spiazzanti, spesso violente> (Beatrice buscaroli) e che è <scultore romagnolo tra i migliori della sua generazione>(Luca beatrice). In realtà, nella deposizione di Silvio (trattasi di Berlusconi, è quasi una preveggenza, ma si fa riferimento allo svenimento a Montecatini terme),in L’eletto (il faccione di Obama sul Time in micromosaico) o Miss Romagna ci vedo poco scandalo o sconvolgimento, tant’è, fidiamoci.”
Ultrapop
La Voce 6 Febbraio 2014 (Terza)
Intervista Davide Brullo
I romani usavano il mosaico per narrare le proprie storie, era la televisione di allora, con i pixel di pietra Leonardo Pivi.
Un mosaico riproduce la copertina che “Time”ha dedicato a Barack obama: titolo “l’eletto”, D’altra parte, Miss Romagna è una bambolina sbrindellata ricavata da un osso, mentre Miss in Gambissima è una sfilza di feticci forse africani, forse tratti da un’incubo di David Lynch. C’è il marmo Bianchissimo che eterna un piede nell’atto di fare il dito medio(titolo: ma va a fano), c’è il fatidico Pinocchio messo in croce e c’è perfino Silvio Berlusconi, ripreso in Mosaico, mentre ha un malore durante un comizio, era il 2010(La deposizione di Silvio). Insomma un bel talento per l’humor nero, per il salutare cinismo. <mi piacciono i titoli ambigui, ironici, danno un significato più complesso all’opera.Anche terra bruciata in fondo, è un titolo ironico
“Terra bruciata è il titolo della mostra di Leonardo Pivi, allestita negli spazi più importanti della riviera riguardo al contemporaneo: la FAR in piazza Cavour,Rimini e villa Franceschi a Riccione.<HO cercato di creare un percorso cronologico della mia storia, allestendo i lavori più significativi di questi ultimi 25 anni>mi dice l’artista.La mostra a dittico chiude il 9 febbraio, esaltata da un catalogo che contiene un mucchio di testimonianze importanti, da Marco Senaldi(che cura la rassegna) a Renato Barilli, da Vittorio D’Augusta a Francesco gabellini(che per Pivi implaca una suite poetica in romagnolo). M’interessa qui L’introduzione critica di Luca Beatrice, però che parla di Pivi come di un <buon artista ravennate a cavallo tra V e XXI secolo, che racconta la vita degli altri, sostituendo la carta stampata con un piccolo contributo di eternità”. Nato a Cesena, cresciuto artisticamente a Bologna, vissuto a Ravenna e ora di stanza a Riccione, totalmente romagnolo, Pivi mi pare Mescolare l’arte precolombiana alle pulsioni avantpop, che vedo, per dire, nel puffomosaico, dove l’arte romana, la bisanzio degli esordi si fonde al mito televisivo. <Diciamo che all’inizio sono stato posseduto da un’immaginario più onirico e visionario, legato ai sogni, legato a creature suggeritemi dalle croste dei muri, nei marmi, nel legno sbrecciato dei mobili. A un certo punto,Ho lavorato con la contimazione, creando un cortocircuito tra icone del cinema o i fatti della politica e le tecniche antiche>. Tra cui spicca l’utilizzo che fai del mosaico: che attualità possiede una tecnica tanto ancestrale, artigianale? <La sua forza è nell’essere uno dei linguaggi meno conosciuti, oggi. Ma i Romani usavano il mosaico per narrare le proprie storie, era la televisione di allora, con i Pixel di pietra.Siamo abituati ad assorbire in pochi secondi moltissime immagini: il mosaico costringe a fermarsi, porta in se una radice millenaria, provoca uno shock emotivo>. Pivi è artista che non si vergogna di guardare al passato(“i grandi maestri, Leonardo Da Vinci per dire solo una mia passione”), ma ritiene il predominio della rete una opportunità “che permette anche agli artisti che vivono ai margini un’opportunità”. Ma tra i contemporanei, chi ritieni un maestro?<Mah, penso che un contemporaneo debba ancora fare il capolavoro.L’arte di questi tempi direi che è divisa in due grandi blocchi.artisti dediti alla mercificazione e altri, in penombra, che non godono delle prime pagine delle copertine patinate >. Nella tua vita “bolognese” sei entrato in contatto con Maurizio Cattelan, che idea hai di lui?<Sicuramente ha segnato un periodo della nostra storia, ha avuto la capacità di mettere in contatto l’arte con la grande comunicazione mediatica. Bisognerà poi vedere che tenuta avranno i suoi lavori>.Intanto Pivi continua silenziosamente, un artista che coltiva gelosamente i propri sogni, a lavorare:in primavera realizzerà una residenza alla Gluck50 a Milano “è una personale su un progetto scultoreo, moltoclassico, che farò li. Ma non se ho voglia di dirlo al mondo”. Detto. L’autenticità di un artista si verifica nel pudore.
Aperto: out of order
Catalogo 30 Zagrebacki salon Muzejski Prostor
Laura Safred
“Leonardo Pivi raccoglie i frammenti del ricordo e della soggettività e li elabora in installazioni minimali che conservano tenacemente il significato e la qualità di un segno personale.
Terra bruciata, anzi fertile
di Annamaria Bernucci
Venticinque anni dedicati alla ricerca artistica condensati in due mostre e tre sedi (Riccione Villa Mussolini e Villa Franceschi, Rimini FAR Fabbrica Arte Rimini Palazzo del Podestà) sino al 9 febbraio 2014 per celebrare Leonardo Pivi, artista di punta del nostro panorama artistico contemporaneo. In questa singolare antologia di opere che mette insieme linguaggi come disegno, scultura, mosaico, Leonardo Pivi emerge come protagonista assoluto, manipolatore, inventore, dotato di un’esclusiva vocazione scultorea messa al servizio di un raffinato potenziale immaginativo e fantastico.
Salta subito agli occhi l’acida contrapposizione tra le iconografie del contemporaneo e le tecniche antiche destinate per loro natura a durare nel tempo a fronte dell’effimero e dell’impermanenza degli oggetti e delle immagini che ci circondano. Tutto racconta di un viaggio onirico e visionario attraverso miti e tabù, provocazioni e corti circuiti temporali, riflessioni che toccano tematiche ‘aliene’ e puntualizzazioni sullo stato ecologico o politico attuale.
Nato a Cesena nel 1965, diplomato all’Accademia di Belle Arti di Bologna, Leonardo Pivi vive e lavora a Riccione. Attualmente è docente del corso di Specializzazione in Decorazione presso l’Accademia di Belle Arti di Ravenna. Emerge nei primi anni Novanta elaborando un proprio linguaggio e una perlustrazione tra le icone del potere mediatico: è la stagione delle sue copertine, ritratti di personaggi politici, dello sport o della musica; si alternano i volti di Mao Zedong, Michael Jackson, Vasco Rossi, David Bowie, Obama.
Hanno scritto: “ciò che riesce ai mosaici di Pivi è immortalare come in un frammento di antico pavimento romano facce di premier, animali estinti, volti rifatti di rockstar, o persino opere d’arte, trasformando la nostra inutile e stucchevole Cronaca, miracolosamente e per sempre, in una scheggia di Storia”. La manipolazione sulle immagini avviene con l’antica tecnica del mosaico e micromosaico, affiorano altri significati, più sottili, che colpiscono i luoghi comuni dell’immaginario collettivo e i nostri consumi mediatici. Scrive il critico Marco Senaldi: “Il lavoro di Pivi nasce da un’inclinazione verso il meticciato espressivo, l’incrocio formale, il gusto barocco per il bizzarro, sostenuto da una perfetta padronanza dei mezzi linguistici impiegati, che si tratti di pittura, di scultura, di mosaico, o che i materiali in gioco siano pietra, tessere musive, o metalli preziosi, come nel caso di particolari gioielli realizzati dall’artista.
Quello di Pivi è un complicato universo di segni, dove si mescolano pinocchi sofferenti e idoli di sapore azteco scolpiti su pietre dalle dimensioni lillipuziane, teste di mucca dagli occhi di smeraldo, oppure icone mediali, come Sofia Loren o Mike Tyson, inaspettatamente nobilitate da mosaici che li rendono simili ad antichi condottieri ellenistici. All’interno di questo mondo, le riviste realizzate con l’antica tecnica dell’opus vermiculatum (micromosaico) occupano un posto di rilievo. Esse costituiscono una riflessione profonda sul ruolo strategico delle immagini nella nostra società e sul loro uso bellico, economico, o anche semplicemente estetico – ma non solo.
Infatti, “solidificando” il flusso indistinto di figure, forme, apparenze, sembianze, rappresentazioni, che ogni giorno, quotidianamente, implacabilmente, le armate massmediali ci rovesciano addosso, in qualche misura ci forniscono un antidoto, che consiste nel soffermarsi sul “male”, anziché tentare sbrigativamente di liberarsene, come faremmo regolarmente con un vecchio giornale”. Pivi non si è negato sperimentazione e provocazione – per quella sua capacità di sovvertire regole e codici – e si è concesso l’apertura a bruschi passaggi, dal sapore acre e spietato (burattini crocifissi), mischiando le carte tra sacro e idoli contemporanei, tra vestigia cult dell’arte e della storia con paradossi irriverenti; sostenuto da un’abilità tecnica solidissima ha giocato e manipolato di tutto, come ama osservare, passando tra le sue opere esposte, accarezzando i piccoli ciottoli levigati e le pietre scolpite a cui punte e scalpelli sottilissimi hanno dato volto ed espressione. Come in una Disneyland in miniatura. O in una gothic novel di nuova generazione.
Left riletto da Pivi
Articolo su rivista Left N°19 2011 Pag 55
Donatella Coccoli
Sembra una copertina normale. Ma in realtà il Martello è un mosaico di pietruzze finissime accostate con un gioco sapiente di luci ed ombre. Reale e irreale insieme.
“Cerco di far convivere –afferma Pivi- questa tecnica arcaica che è il mosaico con il linguaggio delle notizie, che hanno le ore contate”.
Leonardo Pivi, che ha cominciato la sua attività espositiva negli anni 80 nella storica galleria Neon di bologna, dal 95 coniuga un mondo arcaico di concepire la scultura con materiali tecnologici. Nella Mostra “Corpo estraneo “ di Pietrasanta 2004 Pivi Ha espresso in pieno il suo modo di rappresentare attraverso l’uso e il riuso di immagini di riviste. Volti simboli, parole, che vengono rilette con un linguaggio particolare. “Nel mosaico c’è una storia di mimetismo che diventa immagine sfuggente. molti non se ne accorgono nemmeno. E io attraverso i tagli delle pietre cerco di rendere questa sensazione”.
Ma qual è il materiale che usa per la sua opera? Pivi ride di gusto: “di tutto! Dai sassi di fiume a ciò che trovo in riva al mare, dai reperti archeologici ai pezzi di vetro”.
La pelle e il cuore
catalogo, edizioni Essegi 1990
Gianfranco Beghi
Di fronte alle opere di Leonardo il mio sguardo non può trattenersi, deve proseguire come un viandante – esploratore, folgorato da una visione “romantica “ di un sentiero che si inoltra e si insinua nella foresta. Ecco, allora, che varco la soglia e mi trovo in uno spazio, in un territorio ignoto che si presenta, di volta in volta, profondo, infinito, soffocante: un paesaggio che non di rado mi ricorda scenografie naturali fantastiche, tipicamente disneyane.
Questo luogo può apparire non molto tranquillo: presenze inquietanti, appaiono e scompaiono velocemente, quasi sempre volti, occhi che mi spiano; presto però. Mi accorgo che si tratta di fantasmi innocenti, innoqui, che facilmente riconosco, semplici abitanti di questi posti.
Avverto ancora, nel lavoro di Leonardo un tono ironico a momenti sottile e impalpabile, a volte pungente e sarcastico.
Gli “scheletri” che Leonardo disegna, ad esempio mo appaiono frivoli e leggiadri:non li vedo portatori di un severo ammonimento per l’avvenire ma, piuttosto, sembrano sventolare, in maniera arrendevole, una bandiera bianca.
Ironici e un po’ goffi, emanano una forte carica di perfidia, e allora, il gioco diventa doppiamente subdolo e pericoloso.
Ho citato l’ironia come tema fondamentale in tutto il lavoro di Leonardo, ma un altro punto fondamentale di Leonardo è costituito dall’interesse per il mondo naturale. Penso ad una natura filtrata attraverso cinque sensi, tale, paradossalmente, da farmi sentire odori e suoni particolari. Sono portato ad una interpretazione della natura, dapprima vibrante, vertiginosa, carica di poesia, a cui, successivamente, si sovrappongono appunti precisi, da vero scienziato che analizza il tutto in ogni sua minuscola mutazione. Un paesaggio, una visione totale del mondo: lo stesso paesaggio che diventa un frammento del nostro corpo: e questo che mi affascina di più: un’escursione dall’intimità più profonda ai più remoti spazi. Una distanza che diventa estrema ma essenziale per raggiungere l’unita.
Italia Ora
catalogo 2011, Pag 64
Bianca Terracciano
Welby e Terry schiavo rappresentano un approdo altro rispetto ai precedenti lavori musivi di leonardo Pivi. Le due opere sono realizate in tecnica diretta con malta ancorante in silicone acetico trasparente su alluminio;con essa l’artista inventa ex novo una texture sperimentale, risultante dal taglio vivo dell’interstizio e delle inclinazioni marcate dei tasselli che accentuano le sconnessioni dell’andamento musivo, rendendo la tipologia dell’immagine originale e straniante.
Le tessere sono di diversa natura e origine, e la policromia è ottenuta attraverso la commistione di materiali della tradizione Bizantina con materiali, ad essa estranei, derivanti dalla tavolozza dell’artista: ciottoli e pietre di fiume, materiali sintetici industriali, porcellana, gres, fotoceramica, marmi, granito, pietre dure, legno fossile,Ossa e denti. L’ossimoro che caratterizza la tecnica è funzionale al valorecromatico/luminoso ma anche alla resa del significato delle immagini. Frammenti di altri volti a formare l’incarnato di Welby, materiali vegetali per Terry Schiavo, tutto è in funzione della pietrificazione di qualcosa che è nella nostra memoria e allo stesso tempo colloca l’icona nel contemporaneo.
La sacralità, elemento fondamentale nella tradizione Musiva, rivive in queste opere del 2007 e si rinnova attraverso “tasselli mancanti” da sempre ricercati dall’artista.
Una tradizione nata per divulgare insegnamenti religiosi si traspone, attraverso l’uso dei materiali e la scelta del tema, nell’arte italiana odierna, favorendo una riflessione su temi che animano le nostre coscsienze.Il lavoro di Leonardo Pivi si caratterizza per la straordinaria ricchezza di tecniche e di materiali. Nelle opere musive la tecnica è sempre ibrida e può fondere regole che attingono alle forme dell’opus antico, come il tassellatum, il musivum, l’incertum, il vermiculatum, con materiali in grado di sottoporre le icone a delle forzature violente, rendendo le sue opere modernamente antiche.Il potere “trasformante“ del mosaico riesce a ricostruire il nostro immaginario collettivo e allo stesso tempo a fare del contemporaneo un pezzo di storia.
Preview di Santa Nastro
Rivista Espoarte N°62 Dicembre 2009
Viva L’italia
“Esplicitamente politico è il lavoro di Leonardo Pivi, le copertine di alcuni, rimarchevoli, settimanali d’attualità, vengono mosaicate e offerte in quadretti di piccolo formato. L’uso smodato di tinte eccitanti carica i volti noti di un’ulteriore forza grottesca. Ma il confronto con la storia dell’arte a dare il colpo di grazia, nel contrasto tra l’immagine contemporanea ed una tecnica che ha consegnato al presente personalità ed aneddoti del passato. Cosa tramanderemo noi ai posteri? La domanda è implicita. Nell’edonismo sottinteso nelle paillettes con cui l’artista rifà il trucco ai suoi soggetti, si cela qualche risposta”.
Atelier Pozzati
Catalogo 2016
Antonio Grulli
“Il gruppo più nutrito e che forse ha ottenuto i maggior risultati internazionali è quello degli anni novanta, per intendersi il gruppo di Pier paolo Campanini, Cuoghi e Corsello, Eva Marisaldi, Alessandro Pessoli e Leonardo Pivi, Molto affiatati tra loro come dimostrano anche alcune opere fatte a più mani presenti in questa mostra. Si tratta di un Gruppo, già leggendario seppur poco studiato, a cui appartenevano molti altri artisti, che gravitava attorno alla galleria Neon e legato anche alla figura del critico Roberto Daolio. Della scena di quel periodo ha parlato Hans Urlich Obrist in alcune sue interviste come uno dei piccoli miracoli degli anni novanta.
Stop & Go
La Cronaca di Verona, 1999
Giovanni Cavarzere
Leonardo Pivi presenta alla Galleria la Giarina un nuovo percorso pittorico dopo anni dedicati alla scultura.
A soli trentaquattro anni, Leonardo Pivi ha almeno alle spalle dieci anni di carriera, di mostre collettive e personali nel campo della scultura e delle installazioni. Da poco ha varcato le soglie della pittura e ora i frutti di questa scelta sono in visione alla galleria “La Giarina”(interrato dell’acqua morta 82) fino al 4 dicembre.
Il passaggio dalle tre alle due dimensioni non ha costituito una rivoluzione: i temi da tempo presenti nell’opera dell’artista romagnolo risaltano comunque anche nelle tavole. Il desiderio di Pivi di sbigottire resta al centro della sua produzione, e la volontà di farlo mostrando figure umane mostruose e sempre crudeli è sempre presente; solo due quadri non rappresentano”mostri”:un contrabbasso che raccoglie oggetti del tutto avulsi dal contesto e quello dal titolo malizioso e ammiccante nella foto a lato, che non è però visibile: L’artista all’ultimo momento non ha ritenuto opportuno inserirlo per l’evidente differenza di tono di questo soggetto rispetto gli altri. Se infatti in questo caso il fondo azzurro si accorda con la figura mansueta del cervo nel trasmettere tranquillità e lunica nota traniante è rappresentata dagli slip di pizzo tesi tra le corna dell’animale, le altre tavole che presentano il medesimo sfondo portano immagini piuttosto forti: due figuri che squotono un coniglio e un uomo incastrato é come crocifisso a un muro di mattoni rossi, immagine di una religiosità cruenta e polemica rispetto all’iconografia tradizionale del cristo in croce sereno anche nella sofferenza, e tuttavia vanamente blasfema. Prprio il fondo è un elemento essenziale di tutte le opere, tanto che i quadri sono stati raggruppati nelle tre stanze delle galleria seguendo il criterio dell’identità cromatica : troviamo quindi una sala che riunisce i quadri a fondo rosso, una per quelli a fondo azzurro, e l’ultima per quelli a fondo giallo; l’assenza di uno spazio naturale in cui inserire i soggetti testimonia il legame che queste pitture hanno con la scultura, e la forza di questo legame si manifesta nella nettezza dei contorni e nella postura rigida –in un caso bizantina- dei personaggi rappresentati presenti anche nelle opere scultoree dell’artista.Pivi ha quindi mutato campo, ma le regole del gioco sono rimaste le stesse. La tecnica pittorica però lo aiuta a precisare il senso della ricerca che lo accompagna da molti anni,presentare figure inquietanti e a volte crudeli con tinte squillanti da cartoon, una tavolozza che si addice alla gioia e che quindi contraddice le immagini – ha lo scopo per l’artista di sottolineare contraddizioni presenti nel nostro mondo concitato, in cui siamo subissati da informazioni di ogni genere e a ritmi così elevati che la loro bellezza o bruttura è presto sommersa da nuove notizie, in un contesto comunque rassicurante. L’effetto di turbamento che le opere infondono è costruuito anche grazie ad un uso attento dei dettami surrealisti : il quadro diventa uno spazio fantastico, senza precise delimitazioni, in cui si imprimono sogni e fantisticherie che possiedono però una precisione negata di solito alle visioni oniriche.
L’ultima opera di un giovane scultore ravennate
“Pivi e la sua Madonna”
Intervista Il resto del Carlino Ravenna, 11 dicembre 1994
Raffaella Mariani
L’artista ha 29 anni ed è considerato fra i cento artisti più in vista del 1994
Una “madonna con bambino” legata all’iconografia più classica dell’arte, è l’ultima creazione di leonardo Pivi, ventinovenne ravennate. L’immagine volutamente trasgressiva, (un gesso di un Metro e 80 centimetri d’altezza) rappresenta una nuova visione artistica che lo scultore ha elaborato negli ultimi mesi, da quando cioè la rivista <Arte> lo ha indicato nei cento artisti italiani dell’anno.Dieci esperti d’arte a livello internazionale hanno scelto ciascuno dei nomi meritevoli di essere ricordati, fornendo una rassegna altamente indicativa della situazione artistica italiana attuale; tra gli artisti più giovani sono apparsi così nomi sconosciuti, come ad esempio quello di Pivi. Dopo il diploma all’istituto d’arte per il mosaico di Ravenna e della sezione di pittura dell’accademia di belle arti di Bologna, Leonardo Pivi elabora per se un percorso artistico singolare attingendo dall’esperienza del mosaico, passando dalla pittura per arrivare alla scultura, fino alle ultime opere basate su installazioni video ed ambientali.Come materiali usa la pietra, la creta, il metallo ma anche il cemento armato, materiale considerato <povero>, ma che sotto le mani di Pivi acquista significazioni molto forti per comporre immagini che catturano L’attenzione.
E sicuramente ha catturato l’attenzione pregiata di un noto critico d’arte italiano quale Renato Barilli, che lo ha segnalato appunto per l’inchiesta di “Arte”, riconoscendo “nei suoi corpi frementi la materializzazione di geroglifici o l’ingrossamento di una stenografia”.
“Sono rimasto sorpreso della segnalazione di Barilli sulla rivista-dice Pivi-segno che forse anche in Italia si stà muovendo qualcosa intorno alla nuova arte, mentre io fin ora ho lavorato molto bene con l’estero, dove il clima è più di sperimentazione e apertura verso nuove tendenze artistiche”.
Diverse Mostre in svizzera infatti, come l’ultima alla galleria Analix di Ginevra, ottengono l’attenzione di critici come Roberto Daolio, che dedica a Pivi una recensione sulla rivista <Flash art> del giugno scorso. Tra sacro e profano, organico ed inorganico il lavoro di forte impatto di Pivi è in costante mutazione:le sue figure come larve umane, quasi scoperte dalla mano di un archeologo sotto le ceneri di una civiltà perduta, mutano la pelle come la propria anima, forme come una storia passata, (a volte rappresentate dall’uso di semplici ciottoli di fiume) si tramutano in esseri urlanti, cattivi ma portatori di grandi segreti e di forti sofferenze. ”Sicuramente la mia ultima Madonna con bambino-continua l’artista- sembrerà irriverente o troppo “moderna”, ma la mia intenzione invece è contraria, o meglio ho voluto creare questa immagine per colpire in modo forte lo spettatore, per avvicinarlo ad una religiosità riscoperta”. Ci tiene molto Pivi a questa sua Opera ne parla in modo quasi sacrale, come se la scoprisse lui stesso al momento e non ne nasconde un certo orgoglio dicendo che un certo critico d’arte italiano – si mormora Achille Bonito Oliva – abbia voluto vedere questa madonna, ma il suo desiderio sarebbe quello di poter presentare l’opera e parlarne con il cardinale Tonini.
I cartoon colorati di Pivi
L’arena lunedi 22 novembre 1999
Luigi Meneghelli
Tra immaginario individuale (sogno) e immaginario collettivo (mito), tra fantastico quotidiano e fantastico originario, panico :Leonardo Pivi (Cesena 1965) ha sempre attinto ad una dimensione dell’arte a metà strada tra storia ed attualità: tra idoletti lapidei, statuette propiziatorie e figure dell’infanzia (Pinocchi, Puffi un po’ sfrontati, un po’ inquietanti). Della scultura Primitiva ha impiegato il gesto, fermato nella materia come una cicatrice o come un’incisione dell’oggi ha scelto la deformazione formale al limite della caricatura, della maschera: come dire che L’amuleto appare insieme sacro e pagano, misterioso e provocatorio. Cosa che succede anche con i successivi mosaici romani, dove le tessere costruiscono l’immagine di un Dio-idolo contemporaneo (Morrison, Gligorov) popolando così gli spazi del culto con feticci mediatici.Ma le estreme grandi tavole, lavorate a tempera che sta proponendo alla galleria la Giarina (fino al 4 dicembre), a un primo colpo d’occhio sembrano evidenziare una sorta di scarto di composizione tecnica e senso. Il racconto di pratiche magiche pare aver abdicato in favore di semplici magherie surreali alla Lautreamont (“ballo con l’incontro fortuito, su un tavolo di dissezione, di una macchina da cucire e di un parapioggia”). Come osservare del resto, l’opera dal titolo Medioevaltirolese:un accostamento improbabile di un bamboccetto, di un pianoforte e di un bue squartato? La gratuità del legame taglia ogni qualifica realistica alla scena e mette in moto le forze dell’immaginazione. Ma nel far saltare l’ordine delle cose, nel creare compresenze, e ibridazioni figurali, Pivi non si separa da quella prassi intima e ossessiva che era anche la cifra della scultura. La tavola diventa la parete per un lavoro a tempera di alta abilità tecnica che sa di intonaco, di pittura muraria, di affresco pompeiano. Anzi il procedimento antico travolge perfino le forme e le fa regredire entro se stesse, quasi allo stadio della loro formazione.e allora si capisce come alcune scene di crudeltà quali (natura mezza morta, che presenta lo scuoiamento di un coniglio) non intendano essere pure esibizioni di una pura spettacolarità <splatter>ma la volontà di rappresentare un rito misterioso, antico, eterno(forse l’idea stessa del rito, il concetto tribale del sacrificio). E le figure, che a loro volta, si avvicendano intorno alla cerimonia, e che sembrano rifarsi alla magia di cartapesta dei baracconi o al decadentismo delle <favole>felliniane, non sono pensate nella mera ottica della deformazione o della incarnazione dei nostri incubi, ma proprio come creature di carta pesta: figure che non esistono, che non sono lì in carne ed ossa ma <esseri> che sono pensati vivi, quindi di una vita al di la del vero (che si consuma presto, che è cronaca). L’essere è favolistico, quasi cavato a viva forza dal medioevale liber monstrorum de diversis generibus: e ciò li rende atemporali, simboli di un grottesco primordiale, di una terribiltà antichissima.Il segno stilizzato e l’impiego di tinte forti, al limite dell’”à plat”, ha fatto parlare il curatore Guido Molinari di cartoon, di “colori disneyani”. Diciamo che Pivi si serve dell’impostazione fumettistica in funzione strumentale, cioè per semplificare e rendere più immediato il suo messaggio. Lo stesso fatto che non ci siano sfondi, ma solo una superficie monocroma, fa in qualche modo galleggiare l’immagine, la porta al livello di uno stemma araldico, di un segnale arcaico che smarrisce i propri significati nella notte dei tempi.<Stop & Go>:è il titolo (da formula uno) della rassegna, come a voler indicare non un arresto o un viraggio stilistico, ma un <pieno> (per rimanere in gergo automobilistico): il passaggio dell’esperienza diretta del sasso, della pietra scolpita, alla sua elaborazione bidimensionale, alla sua lettura aperta, spaginata : senza, con questo, perdere nulla di quel bisogno di muoversi sempre ai bordi di una elementarità preziosa e spettrale. E anche lunica scultura presente in mostra è di cartapesta è resto d’essere, carcassa crocefissa orizzontalmente) anch’essa è immagine teatrale agghiacciante ed ironica, che mostra la sua fatale consumazione in superficie, come se fosse essudata, espulsa veso l’esterno.
Il corpo primordiale
Shape your body, Galleria La Giarina, Verona, 1994
Luigi Meneghelli
La scultura di Leonardo Pivi suggerisce un’atmosfera dichiaratamente magata: schegge di immagini, minimissime o gigantesche, terribili o violentemente caricaturali; esseri dai tratti stilizzati, estranei ad ogni idea di forma, di definizione figurale.
Sagome innocenti, “prime” o primitive: non solo perché sembrano scavate da forze naturali o incise come antichi amuleti, ma anche perché il gesto non si ferma nella materia e nella sua intima fisiologia, ma la trascende cercando un’immagine multipla (contemporaneamente effige umana, allusione animale, segno infero, insegna regale, ecc.).
Attitudine questa, che si trova anche nei piccoli studi con i quali Pivi si accosta all’opera: tracce che crescono su sé stesse, quasi salissero dal fondo del foglio e diventassero disegni senza immagine, senza racconto, già nei pressi dell’astrazione. E la figura simbolica dell’embrione che si evidenzia (o anche quella della maschera), dove il corpo è ridotto a viso e il viso è sviluppato alla maniera del corpo, generando una sconvolgente deformazione dei tratti fisionomici: una traslazione delle parti. per cui ciò che è elevato (il corpo) si contrae e ciò che è raccolto (il volto) si dilata. La conseguenza è che il lavoro di Pivi non è da leggersi come pura presa delle distanze rispetto “all’immediatezza mediale” (all’immaginario quotidiano), in favore di un recupero nostalgico del fare (del gesto naturale), quanto come la costruzione di una forma che si nasconde. E in questo suo nascondersi si inghiotte, sprofonda nei suoi lineamenti poveri e terroristici se è l’osservatore: alterazione/nascondimento di ogni fisionomia che rende la scultura una cosa in sé, un fatto, un feticcio sovrastante, immodificabile: ultramondano (anche se eretto con spoglie, banali elementi del mondo).
Visita presso lo studio Ravennate 1994
Corriere romagna
Giancarlo Papi
La rivista mensile Arte nel numero di Ottobre attualmente in edicola, li ha indicati fra la cinnquantina di “nuove telle della scena artistica italiana “. Loro sono artisti ravennati Alessandro Pessoli, di cui abbiamo tracciato un profilo su questo giornale non molto tempo fa, Margherita Manzelli, di cui verremmo occuparci in futuro e Leonardo Pivi che è al centro di questo servizio. Pessoli e Manzelli vivono ora buona parte dell’anno a Milano, Pivi lavora e risiede tutt’ora a Ravenna dove si è trasferito in giovane età da Cesena.
29 anni diplomato all’Accademia di belle Arti di Bologna (da quella di Ravenna me ne andai dopo aver frequentato il primo anno). Pivi ha gia al suo attivo la partecipazione a diverse edizioni della fiera di Bologna, di Firenze e Basilea che è notoriamente la più importante fiera d’arte d’europa.
Nonostante la giovane età ha un ricco curriculum di mostre in gallerie private e in spazi pubblici :gallerie che fanno tendenza come la Analix di Ginevra, Neon di Bologna, Via Farini Milano, In Arco di Torino. Nell’anno in corso fra l’altro a partecipato alla rassegna itinerante “Art Lux” e alle collettive “inventario3” Presso la galleria Loft di valdagno e “Shape Your Body” alla galleria La Giarina di Verona.
Da questo momento professionalmente vitale Pivi inizia a parlarcene in auto, la sua, che è una sorta di Bazar dove puoi trovarci anche un’accetta (mi serve per tagliare la legna e riscaldare lo studio),mentre ci dirigiamo verso la periferia di Ravenna. il suo studio occupa una porzione del secondo piano di un casale che è l’abitazione del custode del canile attiguo. A prima vista una zona molto tranquilla, se non consideriamo il continuo latrare dei cani rinchiusi nelle loro celle.
In auto, forse perché condizionati dal suo contenuto ci eravamo fatti l’idea di uno studio con opere accatastate le une sulle altre, pareti tappezzate di progetti e disegni, un pavimento sul quale sarebbe stato problematico camminare senza calpestare qualche cosa. Mica Vero. Intendiamoci, non è una sala operatoria, ma c’è minima parte di cui ci si poteva aspettare.
Soprattutto ci sono pochissimi lavori e se escludiamo un book di disegni, belli, poi un lavoro iniziato del quale Pivi non vuole dire niente perché, afferma, “porta sfortuna parlare delle opere non finite”, rimane una sola cosa. E’ una madonna con il bambino, in gesso, alta diciamo 180 centimetri, e larga 60-70. Certo non è la madonna dell’Iconografia classica, non stà calpestando il serpente, ma del serpente indossa la pelle che ha al posto della foglia di fico. Pivi dice che è “immagine fantasma”, con una forte carica spirituale, potremmo azzardare con un senso del religioso, seppure estranea all’idea di forme e definizioni figurali canoniche. Un’opera che si discosta dalle realizzazioni di qualche tempo fa.
Da quel micromondo intimo costituito dalle sculturine ottenute raschiando con un cutter piccoli sassi raccolti nei pressi dei cimiteri, nelle vicinanze di chiese, sulle rive di torrenti, “frammenti perfetti di materia –Testimonia il critico Roberto Daolio-Corrosi e levigati con la stessa lenta e caparbia ostinazione di un evento e di un fenomeno naturale”. Semmai, con questa opera come con “atto di preghiera”realizzazione esposta quest’anno alla galleria Analix di Ginevra, Pivi “attualizza l’arcaico e mitizza il sacro….con una strana e ambigua commistione di organico e inorganico, di vero e di falso”.”Questa scultura- dice Pivi-mi è costata tre mesi di lavoro, ma del risultato mi sento particolarmente soddisfatto.
Ancora non so bene quando e come la esporrò….vorrei fare una presentazione un po’ particolare “adesso però devo pensare ad altro…. “Ad altro? “Si, fra qualche giorno mi sposo e allora …”. E così veniamo a sapere che la futura compagna é Maria Cristina, Maria Cristina serafini, Artista pure lei che si era fatta da noi favorevolmente notare nella mostra “senza protezione” allestita recentemente a Rimini. Quale occasione migliore per formulare ad entrambi i migliori auguri?
Bibidi Bobidi Bu
Catalogo Castelvecchi editore 1998 Pag 107
Guido Michelone – Giuseppe Valenzise
Leonardo pivi con “Atto di preghiera”sciorina,in computer animation, due umanoidi inquietanti che giocano a morra con gli echi delle nenie dei monaci tibetani a far da nettosurreale controcanto.
Leonardo Pivi
420 WB, Ravenna 1988
Serena Simoni
L’azione artistica può interagire con il mondo in due modi diversi:o violentemente, ponendo in rischio l’immagine di sé e quella di cio che cicirconda, oppure, più delicatamente, annotando quasi in margine, postillando, giorno per giorno le variazioni, opponenndo leggermente il proprio segno.
Leonardo sembra preferire questa seconda strada, senza lasciarsi spaventare dall’horror vacui e dalla confusione di codici e messaggi del contemporaneo, sceglie di dialogare da una parte con la tradizione artistica del passato, quasi deliziosamente assorto in questo ricevere e apprendere, dall’altra raccogliendo con la stessa minuziosa caparbietà di un poeta biologo, tutti gli oggetti naturali che intervengono ad ispirarlo nella loro bellezza. Così da una parte vediamo pochi segni tracciati in un foglio che danno vita a corpi evanescenti, che lasciano spazio al foglio, al suo candore, alla nostra immaginazione, con la stessa avarizia di tracce con cui i disegnatori orientali raggiungevano la perfezione:è l’assenza che deve determinare ed essere determinata dal segno, è l’immagine che non deve essere una presenza totale ma un semplice suggerimento. Dall’altra parte invece,interviene la presenza del mondo naturale, dei suoi colori, dei suoi materiali :può essere una piuma, o una penna, la loro perfetta trama di fili e toni, oppure l’uso di un colore naturale, creato in studio mischiando a caso o volutamente diversi materiali per tentare di rendere le tonalità impossibili delle ali di una farfalla, per cercare di catturare, ora e sempre, frammenti di mondo che passa (“quanto vive biologicamente una farfalla?”),Possiamo realmente considerare la tenacia di costruzione dell’immagine di questi lavori come un rubare frammenti dal mondo, usando la tela come specchio della realtà. Anche la tematica di queste opere spinge a qualche osservazione in questo senso : gli specchi di cui si individua sulla tela la sagoma barocca della cornice, riflettono tutto (“pure il demonio … e la morte”), senza possibilità di riferirsi alla totalità.
Il loro riflesso è sempre e solo per frammenti e nel caso della propria immagine lo specchio non fa che rimandare una estranea a sé o talmente poco comunicabile da potersi considerare solo come esperienza personalissima, a cui assistiamo come spettatori indiscreti.
Compaiono occhi, bocche, tratti vagamente umani, gelosi della propria nascita segreta, ma più che riflettere si aprono dalle crepe dei muri come presenze stupite del nostro “di qua”.
Leonardo fruga la tela, spinge il colore e l’olio di lino dal retro della tela, aiutando i fantasmi ad uscire dal sogno, a inquietarci una volta ancora.
Tessere di luce dalla materia alle icone virtuali
Ravenna Festival Magazine, edizione 2005
Serena Simoni
“La seconda parte del programma propone il lavoro di un artista –Leonardo Pivi- Che pur conoscendo bene la tecnica musiva non l’ha mai considerata nella sua esclusività, accompagnandola da sempre con la scultura, l’istallazione e, più recentemente, con la fotografia.
Il suo lavoro ultimo pur dando come sempre rilievo all’esecuzione e alla scelta dei materiali, concentra l’attenzione sul valore concettuale dell’arte contemporanea, in questo modo del tutto innovativo e originale, il mosaico viene reinserito fra i linguaggi contemporanei come supporto per tematizzare le dialettiche più avanzate dell’arte. Secondo questa ipotesi, il lavoro può indirizzarsi verso la realizzazione a mosaico di una serie di famose icone dell’immaginario collettivo – da marilyn Monroe a Sofia Loren e Tyson, da Spock della serie di Star Trek a Lara Croft, personaggio virtuale di un videogame-o alla sostituzione a Micro- mosaico di parte di immagini fotografiche pubblicitarie sulle copertine di riviste specializzate e quotidiani. Questo tipo di interventi e realizzazioni gioca sul filo di numerosi significati: dalla riflessione sulla persistenza della cultura pop e sul significato attuale dell’icona –digitale, cinematografica o virtuale – al contrasto fra la cultura “alta” del mezzo utilizzato e la cultura “bassa” fornita dall’industria dello spettacolo, fra la preziosità materica e perizia manuale necessarie al mosaico e la povertà della carta stampata.
Montezuma Fontana Mirco
Da Catalogo, 2018
Roberta Bertozzi
La cifra stilistica di Leonardo Pivi sta nella sintesi di due direzioni espressive diametralmente opposte:da un lato una adesione all’immaginario contemporaneo, nella scelta di feticci e figure che ne marcano l’orizzonte ideologico; dall’altro la necessità di ibridare questo immaginario, di depistarlo, costringendolo entro una gabbia formale diretta ad arcaizzarne la presunta attualità. Dopo gli studi all’Istituto d’Arte per il Mosaico di Ravenna e allAccademia di Belle Arti di Bologna, Pivi comincia a esporre nei primi anni novanta (periodo cui risalgono le personali Anima Mangia Anima nella storica Galleria Neon di Bologna e Atto di Preghiera presso la Galleria Analix di Ginevra). Il suo percorso si sviluppa tramite un ductus che privilegia stilemi propri della tradizione antica ( mosaico e micromosaico in primis ma anche pittura e scultura ),ossia di tecniche che gli consentono di sovvertire il carattere simulacrale delle rappresentazini mediatiche, la loro essenza idolatrica, cosi come descritta da Jean Baudrillard: una finzione che non ha alcuna relazione con qualsiasi realtà di sorta pur pretendendo di valere per quella stessa realtà.
Sottoposte a questo trattamento anacronistico, che interrompe una volta per tutte la catena mitologica che queste vedettes sono chiamate a rappresentare, le immagini incontrano il loro martyrium e la successiva espiazione,trasformandosi in compiute vestigia dell’attualità. Tutto questo si verifica passando per una trincea formale rigorosissimma,un melting pot di codici e contenuti,non senza una precipua inclinazione del nostro verso il dettaglio straniante, il paradosso, la dissacrazione.L’indicativo presente, che è il tratto tipico dell’iconografia spettacolare, si tramuta qui in un passo remoto, dove l’immagine viene sottratta al circuito della tautologia -in altri termini, viene redenta.
Ouverture
Flash Art, 155 – 1994
Roberto DaOlio
Se non potesse sembrare un abuso terminologico o un’imprecisione semantica tout-court, nel senso della ridondanza para-scientifica clic si è soliti attribuire alla definizione di arte antropologica, per Leonardo Pivi si potrebbe adottare in pieno tale aggettivazione. E, soprattutto, la si dovrebbe accettare nell’ordine completo di una legittimazione culturale e linguistica che segue e percorre senza soste i dislivelli e le fenditure di una apparente inattualità. Se anche, in superficie, si vuole allontanare al suo destino di distacco, di frammentazione e di archeologia, l’homus indistinto di vita e di morte che forgia e configura la morfologia della storia umana come precipitato simbolico e allusivo della “rappresentazione” del tempo e dello spazio, allora la continuità del collante antropologico colma ed abbrevia le distanze. Se la definizione di “primitivismo” si misura in diversi momenti con la necessità critica di una revisione delle pratiche correnti e di una volontà di richiamo “originario” e, forse, essenziale al contatto diretto con la natura e con i principi di una conoscenza archetipica, diventa utile porre l’attenzione sulla diversità e sulla molteplicità dei significati di evoluzione e di sviluppo. E, soffermarsi, al tempo stesso, sui passaggi e sui percorsi non sempre diretti, da uno stadio all’altro. Non solo per riflettere sulle forme di un’espressività modellata sulle compresenze, sulle ibridazioni e sui “ricorsi” asincronici ed eclettici, quanto sull’alterità che trascende materia e forma di un pensiero e di una conoscenza lineare, Leonardo Pivi coniuga un paradigma di attraversamenti in continua trasformazione e mutazione. Modifica scale e rapporti, attualizza l’arcaico e mitizza il sacro, secondo un’attitudine plastica in grado di cambiare rotta dalla materia simbolo per eccellenza: dall’argilla, alla pietra, ai sassi e ai ciottoli levigati dall’acqua e dal tempo; fino al materiale da costruzione “moderno” per antonomasia: il cemento. E ancora una strana ed ambigua commistione di organico e di inorganico, di vero e di falso, recuperata attraverso l’abilità, la pazienza e la raffinatezza “fuori tempo” della tecnica musiva. Dove il disegno, l’impianto e la struttura di base dell’assemblaggio minuzioso delle singole tessere, rispondono ad un’esigenza costante di ricerca e di alterazione/trasformazione dei materiali primari o. esplicitamente. secondari e artificiali, al fine di convertirli all’idea di partenza. Ideazione ed esecuzione non possono, in questo caso, venire separate e affidate all’abilità tecnica di on artigiano. Il piacere manuale del fare, del trasformare una materia povera o ricca, trovata o cercata con ostinazione e con co’a, e adeguata alle esigenze di on principio espressivo intransigente e caparbio, consente di estendere la dimensione estetica ad una me- I mona progettuale capace di scambi e di tensioni al dialogo e all’interazione. Non per niente Pivi coglie il grado e il valore di un movimento dialettico tra le parti e tra i diversi linguaggi formali utilizzati, nella necessità di articolarli singolarmente. E non certo nel tradurli uno nell’altro confondendo distanze e specificità. Ritorniamo e ripensiamo ancora alle sculture più o meno antropomorfe e dai tratti esasperati, magari anche in chiave neo-espressionistica. E ai materiali efficacemente disomogenei però amalgamati nell’ordine “contaminato” di una soluzione non lontana dall’idea del mitico BRICOLEUR delle origini. In questa dimensione simbolica e arbitraria, in questa riconversione di contrasti e di accostamenti “sacrali” di on immaginario senza confini, nel quale Cristo e Pinocchio si scambiano sulla croce o le figure dei dodici apostoli si attagliano come mutanti sanguisughe bronzee ad un emblematico simulacro; o sincretiche figure di templari e di cavalieri pseudo-medievali si stendono a perpetuare un rito di fertilità arcaico e ancestrale o, dove, a mutazione avvenuta l’idolo “pagano” si adegua ad un atto di prostrazione e di umana preghiera prima di smaterializzarsi nell’animazione grafica computerizzata, per risolvere nel gioco della “morra” l’esercizio sottile di una pratica dell’ironia, si risolve il quasi impossibile equilibrio tra proiezioni temporali inconciliabili. Se non sul piano orizzontale dell’evocazione e dello stordimento paradigmatico di una fusione linguistica tra pensiero “selvaggio” e lucida concentrazione di conoscenza necessaria a disperdere un sapere simbolico oltre i confini. Oltre tutti i confini che innervano nella storia processi di revisione e di riconversione ad una linearità progressiva e falsamente “evolutiva”. Leonardo Pivi sembra in grado di conservare il disincanto dell’opera compiuta nei suoi estremi minimali di una prassi intima e ossessiva (pensiamo al lento lavorio del cutter sui piccoli sassi, sulle ossa e persino sulle concrezioni patologiche prodotte dal corpo) così come, nella sua proiezione monumentale di reperto concentrato e virtuale di immagini in continuo movimento, tra un sentimento di conservazione della natura in forma simbolica e una determinazione cerimoniale alla contemplazione attiva di un’attitudine graduata sull’eliminazione delle distanze culturali e interpretative. Dalla somma di un lavoro plasmato sulla retorica dell’inattualità, si scopre lentamente il grado di proiezione e di coinvolgimento estremo che sale dalla vera concretezza del presente e della contemporaneità più consapevole, può ricavare la complessità di una risposta “radicale” dentro alla realtà.
Out of order
Catalogo Aperto 95 – Galleria D’Arte Moderna, Bologna, 1995
Roberto DaOlio
Il lavoro di Leonardo Pivi approda alla dimensione plastica attraverso un lento processo di verifica tra l’ordine ancestrale dell’immaginario mitologico e la proiezione simbolica di una naturalezza perduta e svuotata di senso.
Un contatto con la materia del fare e con l’evocazione a distanza di on processo di contaminazione tra passato e presente, tra ordine simbolico ed evidenza feticistica, tra gioco formale (evocativo di segni e disegni mobilitati a condensare on apparato iconografico in equilibrio sui simboli sacri e sulle immagini profane) e tra violazione di codici espressivi che incarna e trasforma la concretezza scultorea in destino rappresentativo di metafore ardite e vitali.
Il senso primario della trasformazione avviene per sondaggi estremi nel confronto di una evocazione naturalistica e di una presa diretta nel fantastico immaginario dell’infanzia.
Contaminazioni simboliche e religiose si arricchiscono di ingombranti qualità surreali, in grado di riformulare l’idolatria del presente “immateriale” in pura iconoclastia semantica e virtuale.
Anche il luogo fisico e ricercato della “scultura” affronta la fluidità dei transiti e dei “non luoghi” della rappresentazione “out of order”.
Erranze ed eresie
catalogo Contemporary Ceramic Art 2005
Roberto Daolio
“Una disinvolta abilità manuale e artificiale conduce leonardo pivi ad affrontare con perspicacia e convinzione gli estremi di una diversificazione iconica sempre in equilibrio tra valori simbolici fantastici e arcaici e la più solerte rilettura di una contemporaneità remixata sul collasso spazio- temporale.”
Giovani artisti
catalogo 3° laboratorio galleria S. Fedele Milano 1989
Roberto Daolio
“Per Leonardo Pivi pittura e disegno sono un concentrato di rapidi e raffinati appunti cromatici da disperdere in un’infinita serie di piccoli “frammenti”, perfettamente conclusima destinati acomporsi sul volto della parete secondo un ordine libero e variato per logica associazione o per pura pulsazione interna.
Passaggi
catalogo isola di Albarella Arte e Cultura Cà Tiepolo 1997
Roberto Daolio
“Leonardo Pivi Traduce nei disegni, nelle sculture, nelle istallazioni, ed anche nei mosaici, un processo di fusione e di integrazione tra figure ed elementi iconografici arcaici e i loro corrispettivi contemporanei. Il corto circuito temporale dei riferimenti e delle contaminazioni tra alto e basso, individua scorciatoie di senso in grado di riformulare le trame di una fantasy imaginistica dove reale e sur-reale si fondono dentro l’immagine stessa di una natura in via di mutazione”.
Una Babele post moderna, 2002
Edoardo Di Mauro
Anche con Leonardo Pivi il tema dell’antichità diviene attuale, l’artista romagnolo, che si è sempre espresso con una gamma di soluzioni formali estremamente variegata, e supportata da analogo virtuosismo tecnico, è uno dei pochi artisti in grado di donare vita a un linguaggio apparentemente tramontato come quello del mosaico. Attraverso l’uso consapevole di questa tecnica, aggiornata verso la lunghezza d’onda dell’iconografia contemporanea, è possibile indicare concretamente il collegamento diacronico che collega tra loro la fenomenologia degli eventi artistici.
Symposiumsculpturae
Vittorio Veneto, 2003
Edoardo di Mauro
“La poetica di Pivi è da sempre centrata sulla rappresentazione antropomorfica e zoomorfica e da questo si coglie la totale sintonia con il tema prescelto. Le immagini materializzate dalla fervida fantasia dell’artista, al di là della disposizione nel sito bidimensionale o in quello dell’installazione, operano una singolare dialettica degli opposti, adoperando tecniche di antica tradizione, come mosaico e scultura in marmo, per realizzare delle iconografie che, viceversa, vanno a pescare all’interno del repertorio iconografico della contemporaneità,con procedimento ricalcante gli stereotipi della cultura Pop, oppure solidificano visioni inquietanti nella loro apparente naturalezza e candore, umanoidi alieni, e fantasmagorici ibriditra uomo e animale, un bestiario impazzito a causa del mutamento degli equilibri naturali”.
I quaderni di san sebastiano Forlì 1988
Bruno Bandini
“procede da una sorta di gesto naturale, in cui la natura fisica, l’universo fisico resta controllato ed incontaminato, osservato e rispettato, in Pivi, per la via che conduce alla<<minimalizzazione>> della struttura naturale, vale a dire ad un inserimento di un dato espressivo-astratto all’interno della costruzione, della struttura ideata.”
“La figurazione astratta di Pivi fa confluire all’interno del segno una serie di materiali immaginari, ma naturali, che si <<disegnano>> nel corpo dell’opera. La natura del suo lavoro resta composta nella trama di un segno naturale, perché risce a non usare alla natura violenza.”
Nuovi soggetti
Il granaio fusignano (Ravenna) 1987 Pivi, Pessoli, Beghi.
Bruno Bandini
“Tre giovani artisti che tuttavia hanno già alle sppalle una certa esperienza – possono essere in qualche modo associati ad una tipologia di ricerca che si rivolge alla figurazione astratta.
Movimenti intimi di riflessione si associano ad ossessioni ricorrenti, spesso iconiche, altre volte puramente di “segno” il gusto per il colore si coniuga non di rado con l’attenzione per il gesto grafico, il disegno, l’appunto attorno al quale coinvolgere energie che sanno più compiutamente ordinarsi.
Sono indirizzati alla definizione di strutture formali originarie, ad una sorta di ortogenesi della pittura. che viene scomposta in elementi semplici, elementari, ma organizzati dal segno e dal colore. E questo tradisce in loro un’attenzione non comune nei confronti dei materiali, a volte solo immaginati all’interno della rappresentazione. E, in particolare, un gusto per la sensitività del lavoro, per la soluzione delle fratture che possono inserirsi tra mano e mente, tra esecusione e progetto,il loro è un lavoro non contaminato, che ancora si esprime con linearità gioiosa, come è necessario per ogni “nuovo soggetto”che voglia davvero rischiare su se stesso.
D’ora in avanti
Catalogo 44° Premio Michetti 1992
Renato Barilli
“Potremmo collocare a questo punto della rassegna altri due protagonisti della felice scuola emiliana nata attorno alla galleria Neon, Alessandro Pessoli e Leonardo Pivi; in effetti la distanza che li separa dai casi già trattati di Bernardi, Cuoghi e Corsello, Marisaldi (all’insegna del concettuale seriale) può apparire pretenziosa, o addirittura inesistente.
Il Primo dei due, Pessoli, ci offre delle “macchine da indossare”, cioè delle maschere, che per forza di cose, dovendo adattarsi alle sporgenze del volto umano, si articolano in lingue, cinture, incavi e occhielli, il tutto all’insegna di un’inevitabile flessibilità”soft” ne vengono degli oggetti misteriosi e intriganti che stanno tra le maschere antigas e la mordacchia dei processi medioevali contro gli eretici.
Pivi dal canto suo, ci da decisamente della serie, di “objets trouvès”, si potrebbe dire, come se, scavando nel suolo, egli scoprosse strani tuberi a forma di teste imbalsamate ; oppure ha individuato il luogo in cui qualche tribù guerriera ha a posto a essiccare le teste recise ai nemici vinti? O, più semplicemente, il suolo è stato prodigo nel lasciarsi strappare un tesoro di reperti archeologici?”
Eracle, 1996
Renato Barilli
Leonardo Pivi è un’artista abituato a “passeggiare” con bella disinvoltura tra le due e le tre dimensioni, tra la pittura e la scultura.
Poichè in questo caso nella sala dell’Eracle, tratta del repertorio dell’arcaismo, entro la misura della superficie, così come una sogliola si potrebbe acquattare nei bassi fondali del mare.
E per non farsi prendere in tentazioni in senso contrario, si è valso di una tecnica, il mosaico, che di per se stessa impone la riduzione alla bidimensionalità. Le “tessere musive “, infatti, sono mosse da una logica che esige lo sbriciolamento delle masse, la loro scomposizione in una miriade di particelle, quasi in uno sciame di coriandoli, che il compositore può poi disporre a suo piacere, ma tutte in fila, le une dopo le altre, come in un lucido pallottoliere policromo. Nel che sta anche la straordinaria attualità di questa tecnica, pur nata tanti secoli fa. infatti, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la nostra epoca predilige le forme schiacciate, ovvero le icone(basterebbe pensare al rilancio che questa parola sta ottenendo su tutti i computer),e in particolare i sistemi rappresentativi fondati, apunto, sulla divisione in elementi minuti; basti pensare ai puntini di luce che si accendono nei nostri televisori i quali a loro volta sono portatori di quello che non per nulla si chiama “mosaico elettronico”: o si pensi al retino tipografico, costruito anch’esso di tanti “puntini.
Si aggiunga ancora che queste immagini divise assumono un tono “popolare”in quanto poste al servizio della comunicazione di massa. E cosi pure in questo Eracle propostoci da Pivi, che perde ogni dotta austerità per ammiccare ilare, accattivante, avvicinato alla nostra sensibilità, o addirittura a quella dell’infanzia, come fosse chiamato a far parte di un giocoso universo disneyano.
L’artista anche a mettere, in questo benchè ridotto intervento, un’altra peculiarità ugualmente decisiva, ovvero la capacità di cambiare di scala nel corso di una medesima opera, passando dal grande al piccolo, dal regno dei giganti a quello di Lillibìput.
L’immagine di Eracle si presenta a noi in grandezza naturale, col suo metro e ottanta circa di altezza ; ma non deve sfuggire il fatto che nella mano destra, la statua del dio ostenta un tappo, come di qualche bottiglia di bibita offerta a un facile consumo, in tal modo confermando la conversione a un gusto “popolare”che la forma viene così ad assumere, come se fosse chiamata ad entrre in qualche ingegnoso spot pubblicitario.ma conta più di tutto il fatto che dentro quel tappo si spalanca un novo mondo incantato, seppure su dimensione ridotta, anzi miniaturizzata.In araldica un fenomeno del genere si chiamerebbe Mise en abîme,e comunque esso sta ad indicare, un salto dimensionale, un passagio da un ambito di realtà a un altro: come varcare un confine, sottostare ad un crudele esperimento di biogenetica, abbandonare un mondo e entrare, spavaldamente in un altro ; salvo poi a ripercorrere quella strada esattamente nella direzione opposta, dal piccolo al grande, dalle due alle tre dimensioni.
Un graffitismo molto particolare
Catologo Officina Italia, rete Emilia Romagna, 1997
Renato Barilli
Ma in materia di attraversamenti e incroci nessuno può sperare di battere la coppia Cuoghi e Corsello, pronti a usare lo scatto fotografico e la successiva stampa a colori, ma anche a lasciare tracce corposamente oggettuali di bambole, mobili, capi di vestiario, magari gli uni e gli altri vivacizzati, personalizzati dallo scorrere sulla loro pelle di fluide pennellate, proprie di un graffitismo che non disdegna alcun genere di supporto, che cioè può disegnare i suoi tratti essenziali e sicuri sui muri di case come sulla pelle, sui corpi, oppure su fogli e tele regolamentari.
Col che, se si vuole, il nostro viaggio negli iperspazi dove il richiamo sensuoso dell’estetico si è allentato a favore dei microsolchi della noesi mostra di essere terminato; risaliamo verso valori ed effetti più tangibili, più disposti a esercitare uno scoperto, dichiarato impatto sulla nostra percezione. Come è nel caso dei profili, delle sagome che Paolo Canevari traccia con i materiali più diversi, quasi per riportarsi agli albori dell’atto del dipingere o dello scolpire, quando ogni materiale naturale era pronto a offrire i suoi buoni servizi: tronchi, cortecce, foglie; oggi un simile materiale naturale primario potrà essere utilmente sostituito dai prodotti dell’industria, purché questi dimostrino di possedere un medesimo grado di pronta disponibilità e duttilità. Il che si può ripetere per la scultura anch’essa molto sui generis di Leonardo Pivi, pure lui pronto a ritornare a un’ora zero, quando ci si accontentava di scolpire i ciottoli reperiti nel letto di un fiume, o di evidenziare le impronte che questi possedevano per effetto di escavazioni naturali, trovandosi così depositari di un sistema di scrittura tanto casuale quanto imponente e suggestiva. O perché non ricordare le pratiche magiche, di scongiuro o di maledizione, consistenti nel modellare con le proprie mani una folla di statuette volte e replicare cose e persone del mondo reale, magari aggiungendovi un abbigliamento, seppure tenuto anch’esso su scala ridotta? Urge, insomma, in Pivi una fame di racconto tanto vorace da non stare a distinguere tra manifestazioni a tre o a due dimensioni; talvolta, cioè, i mostricciatoli plastici, invece di gonfiare i muscoli, si acquattano nella dimensione schiacciata di un mosaico, sentito appunto come un modo primordiale di dipingere e tracciare graffiti. E graffiti sono anche le sagome di oggetti domestici che Andrea Sperni verga su una parete, continuandole poi con la presenza reale degli oggetti stessi, collocati sul pavimento, il che è un modo di vivacizzare i precetti kosuthiani relativi ai modi essenziali per “dire” le cose.
Il cratere e l’imbuto
Quadri e sculture. n.18 1996
Renato Barilli
Come altri suoi coetanei Leonardo Pivi, accetta, la supremazia dei fumetti, e parte quindi da immagini schiacciate, bidimensionali, tanto è vero che non appare riluttante all’uso di una tecnica come il mosaico, che della bidimensionalità è la sanzione definitiva, la conferma più coerente e rigorosa. Sappiamo del resto che dal mosaico “vero”, composto col ricorso alle “tessere”, alle pietruzze fisicamente consistenti, è possibile passare a quello totalmente virtuale formato dai “pixel” della televisione. E anche quando disegna o incide, Pivi accetta una logica fondata sui valori della superficie. Ma dal piano e dalla sua forza attrattiva egli è pronto ad allontanarsi verso una conquista sempre più piena della terza dimensione, della plasticità. Il processo, nel suo caso, non avviene per colpo di bacchetta magica, o grazie a una spennellata della proverbiale vernice del Dottor Lambicchi, anzi, a renderlo possibile si dà una specie di parto laborioso, per non dire traumatico, e dai risvolti affondati in una buona dose di oscurità e di mistero. Tra le due e le tre dimensioni, nell’arte di Pivi, sta in mezzo un sistema di voragini: bocche, vagine, crateri. Per esempio, in una delle sue prime prove compare un imbuto, carico di un senso di ambiguità; non si sa, cioè, se uno strumento del genere sia assunto per propiziare un atto di fuoriuscita o di ingoiamento. Questo secondo senso. forse, prevale, e l’imbuto stesso costituisce una trappola in cui una figurina – insetto, amorino, immagine fumettistica – è caduto, trovandosi imprigionato per sempre, e avviato a un destino di progressiva miniaturizzazione, come se quel pertugio spalancato fosse la soglia che immette verso mondi via via più ridotti. Ma il fenomeno si può compiere con direzione inversa. e allora quell’apertura assume la valenza del cratere di un vulcano pronto a sputare fuori lapilli e altri proiettili. Le viscere della terra emettono delle specie di ciottoli, che per effetto stesso vuoi del lancio violento, vuoi di una precedente modellazione subita dalle forze endogene, non possono non avere una forma arrotondata, ovoidale (ma forse la metafora del “fare le uova” risulterebbero, nel caso nostro. eccessivamente morbida e organicista). Ecco insomma clic l’artista si ritrova tra le mani una serie di corpi bombati, i quali recano, scavati, incisi, i tratti sommari di un volto, non si sa se imposti ah origine o se invece pazientemente prodotti dall’artista dopo il loro ritrovamento. Comunque, da qualche parte ci deve essere una matrice misteriosa che presiede all’atto dello stampaggio, e che in tal modo riesce a imprimersi su un gran numero di duplicati e di varianti: come se si trattasse di una serie di maschere di sottile materia plastica, che vengono imposte sulla sfericità di altrettante teste, e una volta indossate, si contraggono, si allargano, aprendosi anche in una serie di smorfie allegre o sataniche, esprimenti meraviglia, angoscia, arguzia, smarrimento. Si diceva prima che l’atto del “fare le uova” non sembra del tutto conveniente, per caratterizzare il mondo di Pivi, in quanto operazione fisiologica un po’ troppo “morbida”: ma d’altra parte un altro atto ugualmente organico gli conviene fortemente, al punto tale che l’artista stesso lo evoca in misura consapevole e scoperta. E l’atto di ingoiare con la bocca, tesa, spalancata nello sforzo, il che poi giustifica anche un senso di lettura di segno esattamente contrario: quella bocca si apre non già per ingoiare bensì per emettere, sotto la pressione di una contrazione del ventre, come quando il nostro corpo è scosso dal vomito; e da qui è breve il passo che porta all’atto del partorire. Certo è che l’intera produzione di Pivi può essere vista come un transito continuo attraverso atti successivi di divorazione – emissione violenta, al modo del proverbiale gioco delle scatole cinesi. Ognuno di quei mascheroni è intento a trangugiare, ma già si profila alle sue spalle chi lo potrà a sua volta introdurre in una propria capace cavità buccale. Se l’operazione segue il senso dell’uscita, dell’estroversione, essa può continuare nel processo di crescita: i corpi sostano un momento allo stadio della macrocellula, del ciottolo, del lapillo levigato e bombato, ma poi muovono verso determinazioni successive, mettono gambe e braccia, assumono particolari fisionomici, senza mai tradire un ritmo fondato su motivi ondulati e flessi, senza cioè contestare quell’emissione. quell’esplosione originaria da cui discendono: come se ci fosse un reticolo, appunto, di onde, di emanazioni psichiche destinate via via a raffreddarsi e a consistere in materiali duri. Ma certo Pivi non si preclude mai il processo in senso contrario, e dunque quelle forme piene e consistenti potrebbero imboccare la via opposta, rientrare in sé, far sparire i tratti un po’ troppo descrittivi e aneddottici, ritrovare l’elementarità del ciottolo, lasciare quindi che questo sia ingoiato da un imbuto, da una cavità primordiale, che lo avvierà verso le viscere della terra, o verso un deposito di memorie. Ma poi dopo qualche brontolio anticipatore. l’intero processo potrà ripartire con segno di nuovo mutato, e una bocca tellurica risputerà fuori i suoi frutti misteriosamente perfetti.
30. Zagrebacki salon
Catalogo 1995
Laura Safred
“Leonardo Pivi raccoglie i frammenti del ricordo e della soggettività e li elabora in installazioni minimali che conservano tenacemente il significato e la qualità di un segno personale”.
Biennale arte musica poesia
Catalogo Essegi Lugo Bagnacavallo, 1992
Pier Luigi Capucci
Opera “Africa Africa” “nell’ambito scultoreo segni forti infissi nel suolo, le riflessioni su metafore del corpo di Leonardo Pivi”.
Exibart.com
Giovedì 21/10/2010
Nicola Davide Angerame
Pivi significa mosaico contemporaneo? Certo, ma non solo. Così Bisanzio si sposa con il web. E partorisce pure bambole woodoo, forse realizzate con ossa umane…
L’ironia di Leonardo Pivi (Cesena, 1965; vive a Riccione) sa addentare come quei cagnetti che sommano simpatia e ardore, latrati e piccoli morsi, sempre immersi tra gioco e ferocia. Così le sue Miss, i suoi Berlusconi morenti e i suoi ritratti da prima pagina incastonati nelle riviste in piccoli preziosi mosaici sono taglienti con cortesia, abrasivi con delicata sagacia.
Entrando nella nuova personale torinese che gli dedica Marena Rooms, ci s’imbatte da subito in una serie di oggetti woodoo, fatti di gessi “inventati”, di pezzi di bambole rosa e di autentiche ossa animali. C’è chi sostiene che siano perfino umane e lo stesso artista, interrogato, parla di un ossario meraviglioso, dalle sue parti, dove un tempo ci si poteva rifornire.
Il macabro impeto di queste sghignazzanti figure, dalle bionde trecce e dalle carnose bocche ritagliate da riviste fashion, s’infrange però sui loro nomi come una tragedia che finisce in farsa. Miss Italia ha la testa a forma di anca o di omero; Miss Padania fa capolino come un fumetto di Tim Burton. Le altre Miss sembrano ammiccare a una inesistente giuria, colte in preda a uno sciagurato edonismo, ignare della propria marcescenza, un po’ come Goldie Hawn e Meryl Streep ne La morte ti fa bella. Una galleria di personaggi sospesi tra il mondo magico rituale primitivo, che dà qualche brivido autentico, e l’atteggiamento cinico, goliardico e sardonico di un Occidente disilluso.
L’arte sta prendendo coscienza dell’esistenza della rete e anche Pivi le rende omaggio in una seconda sala dedicata ai mosaici che ritraggono il Polpo Paul, Berlusconi, Valentino e Michael Jackson. Si tratta dei “ten most visited”, delle notizie più cliccate e quindi delle icone decretate dal web nel 2010. In tal modo Pivi visualizza, ritrae e immortala a imperitura memoria (il tono ironico è d’obbligo) le celebrity del momento, dando parola alla rete e portando la schermata a interagire e sovrapporsi ai quei mosaici, che ormai Pivi porta con sé come il segno particolare della sua carta d’identità d’artista nato in quella che fu, per un breve momento della storia, la capitale dell’Impero romano d’Occidente poi conquistata da Bisanzio.
Nella terza sala sono posti, infine, lavori più minuti, meno celebrativi ma intensamente artigianali. Pivi appesantisce i ritratti che trova sulle copertine dei settimanali, trasformando l’immagine di consumo in frammentazioni ricomposte di pietre colorate. L’immagine sprofonda nel corpo della rivista, che non si apre più e diventa come la tavola di legno di un’icona bizantina. La storia antica della lavorazione delle pietre incontra la storia moderna delle rotative e della fotografia digitale.
Pivi usa il mosaico come seducente strumento di rottura e ricatalogazione delle immagini, in linea con la pratica dello sminuzzar pietre, per poi rincollarle secondo l’ordine razionale offerto da un’immagine riconoscibile. Quella degli attuali mass media.
Leonardo Pivi
Bologna giugno 2007
Bruno Benuzzi
Vale la pena rimarcare, nell’opera pietrificata di Leonardo Pivi, come i materiali della secolare tradizione scultorea, a partire dai ciottoli di fiume per arrivare per arrivare al più canonico marmo, siano riscattati dall’artista cesenate grazie alla bizzarria perturbante dei soggetti; persino quando dichiaratamente prosaici come nel caso d’alcuni caciocavalli in marmo penzolanti da cordicelle ancorate al soffitto, come s’usa fare per stagionarli al fresco della cantina.
Siamo da sempre abituati ad associare un materiale aulico come il marmo(per non dire del bronzo) a soggetti monumentali, celebrativi. Bene, non è il caso di Pivi che ovviamente se ne infischia di simili dettami retorici ed anzi s’impone di sbertucciarli sistematicamente in virtù di un immaginario arcaico grottesco, persino fantascientifico. Si badi, una fantascienza del tutto particolare, una fantascienza del passato, se è lecito dir così, paragonabile a quella di cui s’è detto a suo tempo per il Satyricon di Federico Fellini. Ecco dunque che s’affaccia all’orizzonte il romagnolo per eccellenza, anch’esso cultore del bizzarro, dell’eros caricaturale (del felliniano va da sé). Ma a dire il vero, che c’azzecca Fellini? nulla, probabilmente. Eppure, a ripensarci, nella pettoruta Cocca Bacocca del 2001– una gallina, un idolo degno d’un altare pagano munito di consistenti poppe muliebri: una quarta? Una quinta? Chissà – l’ossessione di FeFe per le ipertrofiche ghiandole mammarie dell’animale donna, per quanto qui modellate in marmo, non pare del tutto fuorviante se confrontata a questa singolare opera di Pivi soprattutto se a sua volta la riconduciamo, da un punto di vista lessicale, alla curiosa espressione popolare che raccomanda il problematico latte di gallina: inteso nella valenza di liquore corroborante(latte bollente, zucchero, tuorlo d’uovo, cognac o rum, così recita la ricetta contadina),sia di cosa improbabile a trovarsi. Detto per inciso, era questa una definizione ricorrente nella colorita proposta di giornalista sportivo Gianni Brera che sovente, per scherno, invitava taluni atletici pirla a mungere, se ne erano capaci, le galline rispolverando in tal modo un gergo popolaresco che non suonerebbe stonato in bocca a Bertoldo, l’arguto rustico dalle scarpe grosse e dal cervello fino protagonista di tanta mitologia popolare, emiliana.
Così a proposito di cultura agraria, non ci vuole molto affinchè si materializzi il ricordo del sarcastico, mostruoso ma affascinante, spaventapasseri-Venite a me-realizzato in cemento dal nostro artista (siamo nel 1994) comprensivo di mangimi ed ossi di seppia: un posatoio per pennuti, un’immagine scimmiescamente antropomorfa, accogliente e deterrente al contempo. Ma prima di perdersi definitivamente, sarà il caso di tornare sul concetto di fantascienza del passato cui s’accennava poc’anzi. Ebbene, l’ossimoro mi è parato dinnanzi con forza in virtù di un processo analogico che tende ad associare, nella mia percezione certo distorta, talune sculture bizzarramente stilizzate del nostro eroe (sorta d’idoli in preda alla sindrome di Marfan o, più semplicemente, etruscamente oblunghi) con i deliri psicadelici portati sullo schermo dal regista canadese David Cronenberg nel tradurre per il cinema The Naked Lunch, l’enigmatico romanzo di William Burroughes, un autentico sciamannato ancorchè figura chiave nell’inferno etilico della Beat generation. Nella fattispecie, non pare stravagante accostare le beffarde morfologie plastiche sfornate a più riprese da Pivi- e subito le cose si precisano in quanto le medesime figure possono sembrare quelle di visitatori alieni dalle membra enfaticamente stiracciate frutto di Giacometti extraterrestre- ad un passato proveniente dall’archeologia etrusca o, magari, da un arcaismo tribale: Africano? Oceanico? Azteco? E qui ci vorrebbe l’antropologo.
Insomma, per chiudere il cerchio e ribadire il concetto, il mondo fruibile – zeppo di figure aliene dagli occhi ipertrofici e dalle labbra smisurate come gorilla – modellato e messo in scena da Pivi non s’accontenta di filtrare coi fantasmi del passato (anche dell’esotismo, come si diceva) ma reca con sé tracce ambivalenti, i germi contaminati di un qualcosa- c’entra forse Jung? – che si potrà leggere, a seconda dei casi e della sensibilità, in direzione di un futuro postatomico o al contrario, come un archetipo legato a filo doppio con un passato ancestrale che si vede imparentati coi primati.
Va da sé come queste veloci digressioni siano riconducibili alla dimensione prettamente scultorea che peraltro non è la sola dal momento che Pivi non disprezza, anzi è una parte cospicua della sua opera, la bidimensione musiva e finanche quella pittorica. Va segnalata in particolare l’opzione del mosaico. Pure qui assistiamo ad una sorta di rovesciamento della consuete aspettative di spettatori; si, siamo abituati ad associare il mosaico a tematiche legate al passato (ai pavimenti delle ville romane, alle chiese bizantine, tanto per dire) mentre qui le tessere musive sono al contrario utilizzate per rappresentare scene di vita contemporanea (non mancano i telefonini)o soggetti provenienti dalla cultura di massa e dalle riviste più disparate, se non dai videogame o dalle saghe popolari come Star Trek e lo stesso si potrebbe dire per taluni ritratti dedicati ai divi dello sport (Mike Tyson) o del cinema (Sofia Loren).
In definitiva, didatticamente parlando, nessun timore potrà inibirci più di tanto considerato che, come dimostra appunto Pivi, si può essere contemporanei persino utilizzando tecniche antiquate; importante, però, sarà accendere una sorta di cortocircuito tra presente e passato che ribalti le prospettive date.
Flash Art
n°220 marzo 2000 pag 124
La Giarina Verona.
Francesco Bonazzi
Con “Stop and Go” Leonardo Pivi opera un mixaggio di stili in cui lo sguardo verso l’antico e il recupero di stilemi medievali si proietta verso il futuro, fondendosi con i linguaggi mediali. Si tratta di una pittura visionaria, realizzata con una sensibilità scultorea. Protagonisti sono i corpi torturati di un mondo onirico, il supplizio cruento che conduce allo straniamento. Ogni locale della galleria presenta un fondale diverso: c’è la stanza rossa, quella azzurra, la gialla e nella cripta troviamo un personaggio evirato, “Troglodita postmoderno” torturato da morsetti e installato su un pavimento verde. Le brutalità delle rappresentazioni, a volte, fonde elementi antropomorfi a figure zoomorfe come in “Violino mannaro”: un lupo che cammina a carponi impalato dal violino stesso. É una pittura che a volte è scioccante, a volte ti sorprende fino all’esasperazione.
Art World
issue 3, 2008, pag 124
Paul Carey-Kent
Pivi (b1965) takes ephemerl media images – magazine covers and the like- and invests them with a paradoxical timelessness by turning them into mosaics, reminescent of objects from antiquity. The subject range from celebrities through art world types, from Stars Wars robots to the mysterious and unknown- all receving the same painstaking yet ironic treatment. Pivi who works out of Ravenna, is also known for his modern spin on classical marble sculpture.
Pivi prende immagini virali, copertine di riviste ed altro ancora riguardante i mezzi di comunicazione, ed inventa, con tali, con un paradossale atemporalità, mosaici che ricordano degli oggetti del passato. I soggetti variano dalle celebrità a personaggi del mondo dell’arte, dai robot di Star Wars fino alla misteriosità e l’ignoto. Tutto riceve lo stesso accurato ed ironico trattamento. Pivi, il quale lavora vicino a Ravenna, è anche conosciuto per le sue invenzioni moderne, modellate su sculture classiche di marmo.
Mosaici e Feticci
Upload, Marena Rooms Gallery, 2010
Guido Curto
Vive e lavora a Ravenna Leonardo Pivi (nato a Cesena nel 1965) e di questa antica e bellissima città nel suo lavoro contiene una traccia evidente: l’uso del mosaico. Già proprio di quel mosaico bizantino che a Ravenna, capitale dell’Impero Romano d’Occidente dal 402 al 476 e poi conquistata da Bisanzio, fu il mezzo espressivo privilegiato per raccontare al popolo d’ogni ceto sociale, le Storie delle Sacre Scritture, ma anche per comunicare la storia laica e celebrare l’imperatore d’Oriente Giustiniano e sua moglie Teodora, come accade, ad esempio, nello splendido ciclo musivo della chiesa di Santa Vitale.
Così Pivi – dopo gli esordi negli anni ’80, quando ancora studia all’Accademia di Belle Arti di Bologna cimentandosi con svariati media, dalla pittura alla micro-scultura alla fotografia, e in particolare con una frenetica produzione di schizzi e disegni di piccole dimensioni dal sapore onirico e surreale – negli anni ’90 recupera e attualizza la tecnica virtuosa del mosaico, però, provocatoriamente, sceglie come soggetti le icone mass mediali del nostro tempo, immagini quasi banali, come il Polpo Paul che indovina i risultati delle partite ai mondiali di calcio 2010; la “caduta” del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi a Montecatini Terme; il casco “autoritratto” indossato da Valentino Rossi al GP del Mugello nel 2008.
Inoltre Pivi, da persona colta e sensibile qual è, istituisce un rapporto stilistico-formale (gli storici dell’arte direbbero che lo fa in chiave Puro Visibilista) tra quelle icone mediatiche, estrapolate il più delle volte da Internet, e l’arte antica: il Polpo Paul ricorda certi elementi zoomorfi dei mosaici romani; Berlusconi che sviene sorretto dalle guardie del corpo evoca l’immagine di Cristo deposto dalla croce, ma sia ben chiaro senza alcuna intenzione blasfema o di provocazione “politica”. È una mera attinenza estetica. L’uso del mosaico è quindi un esercizio di stile che sottende la volontà di creare un rapporto, o meglio un corto circuito, tra passato e presente.
Per la mostra alla Marena Rooms Gallery, Pivi presenta nuove e inedite opere installative in cui le icone musive interagiscono con le immagini proiettate, windows, veri e propri snapshots ripresi dal web; così due diversi codici espressivi convivono in una strana simbiosi estetica, dove le tessere musive sembrano pixel televisivi.
Pivi usa, infatti, il mosaico, tecnica paziente con tempi lunghi d’esecuzione, proprio perché sedotto da questo “linguaggio” desueto, che ha trasforma l’immagine, irrigidendola e raffreddandola, fino al punto da renderla tagliente e dura: Però sia chiaro, l’opera musiva creata da Pivi, non si limita a riprodurre le immagini fotografiche, ma le costruisce ex-novo in una sintesi d’antico e contemporaneo.
Questa passione per la manualità la ritroviamo identica in alcune sculture, inedite, che Pivi presenta per la prima volta al pubblico in questa personale. Sculture che sembrano feticci arcaici, realizzati assemblando ossa, legni recuperati dal mare, pietre, o pezzi di bambole alla Bellmer, colorati con terre e antiparassitari delle piante. Opere per certi aspetti simili ai lavori di Art Brut realizzati da carcerati o alienati mentali. Anche in questo caso la volontà espressiva di Pivi è creare immagini di forte impatto emotivo, capaci di colpire il cuore prima che la mente, giocando sul rapporto tra l’uso post-dadaista dell’objet trouvée e l’idea Neo Pop che l’opera d’arte dev’essere un prodotto democraticamente alla portata di tutti.
Spazio aperto al disegno
catalogo
Intervista di Costantino D’Orazio
C. D’orazio: Spesso leggo che tu ti interessi della rilettura di miti e archetipi in chiave contemporanea. A quale archetipo si riferiscono le opere in mostra?
L. Pivi: Non mi preoccupo di reinterpretare miti o archetipi, seguo una via espressiva molto caotica, disordinata, dove ogni opera solitamente si ricollega a fatica alla precedente, perché attuo dei continui strappi iconografici che spesso rendono difficile la leggibilità del mio lavoro.
Non mi sono mai preoccupato di sposare idee o stili ossessivamente, l’ingrediente è il “catalizzatore emotivo” che uso per cambiare continuamente la mistura di colori e materiali, che manipolo per creare pitture, sculture, mosaici.Il mondo delle immagini è la mia vera fonte ispiratrice: fumetto, cinema, internet, video-giochi, ecc.Devo semplicemente focalizzare l’attenzione su un’immagine o notizia in grado di galleggiare come una potente suggestione su tutto il resto.
Può anche succedere che sia il mio metabolismo a suggerire soluzioni formali di tipo inconscio, perché vengono semplicemente ripescate e trasformate in immagini ibride, e che non sempre svelano un legame iconografico originario. I disegni esposti in mostra misteriosamente si sono rivelati attingere energia da un film che ricordo aver visto qualche anno fa e che ha lasciato dentro di me qualche scoria da espellere, il film al quale mi riferisco è “Gremlis”.
C. D’orazio: Mi pare di intuire che tu abbia voluto illustrare una ironica lotta tra vita e morte…. Mi sbaglio?
L. Pivi: non ti sbagli, L’ironia è una componente fondamentale nel mio lavoro, le tematiche che affrontano le mie opere a volte lasciano trasparire un’impercettibile e molto sottile senso ironico, più spesso questa sensazione si fa spudoratamente più esplicita, o addirittura tale messaggio, viene, da me amplificato fino all’esagerazione con forzature di ogni sorta.
Dell’aggiungere per svelare: i fotomontaggi di Leonardo Pivi
Catalogo Re-collage, 2007
Francesco Gabellini
Sono rimasto subito colpito nel vedere i fotomontaggi di Leonardo Pivi, come mi capita solo di fronte all’evidenza del gesto artistico che, unico, riesce a svelare una verità diversamente sempre occultata. Tale è per me la limpidezza di queste opere che trovo imbarazzante ora, qui, il parlarne e se lo faccio è solo per una mia personale soddisfazione di poter ancora una volta credere che la parola possa dire. Ma so che di traslazione di senso si tratta e che dovrei tacere.
Potrei solo tentare di dire quali impressioni hanno suscitato in me queste opere. Ma prima vorrei suddividerle in due grandi categorie: quelle che hanno subito un intervento lieve, appena un ritocco e le altre, sulle quali la mano dell’artista/chirurgo ci è andata più pesante. Non per dare un giudizio di valore sulle prime rispetto alle altre o viceversa, semplicemente perché mi sembra che vadano ad assumere una diversa connotazione. Le prime mi fanno pensare allo strabismo di venere, alla bellezza del perfettibile, alla bellezza del pensiero del perfettibile. A ciò che si sa non essere possibile da raggiungere, e a quel comunque mettersi in strada che sempre l’artista propone. Al percorso come verità. Invece quei volti in qualche modo divenuti mostruosi, quelli che ho individuato nella seconda categoria, mi hanno portato a pensare a una ancora possibile etica dell’estetica. Questi volti ci suggeriscono, quasi profeticamente, una epoca in cui non potremo più (o non è già più possibile?) essere consapevoli della nostra mostruosità, anzi la scambieremo per bellezza.
Ciò che rende estremamente interessante, inoltre, tutto il lavoro è il fatto che una verità la si scopra ricoprendola di altri strati. Si va qui a mettere in opera uno di quei corto circuiti, di quegli ossimori che permettono all’artista di dire l’indicibile, di mostrare ciò che non si può diversamente vedere. Aggiungendo qualcosa a questi volti di donne, sostituendone un dettaglio, Pivi ridona loro la bellezza perduta in anni di povero vagabondare tra le pagine patinate, ma sbiadite, di futili riviste di moda. Queste donne hanno chiesto all’artista di tornare ad essere loro stesse e, finalmente, sembrano ammiccare, quasi a ringraziarlo per aver loro ridonato quella giusta imperfezione che le rende umane e quindi vere. La portata simbolica, anche se non necessaria all’opera, è facilmente intuibile. Si tratta di quel gesto che aggiungendo toglie, come se si fosse giunti a un punto in cui, lo scultore stesso, quale Pivi è, e di notevole bravura, non potesse più togliere e sentisse la necessità anch’esso di aggiungere per svelare. Come se il tempo in cui opera, questo gli chiedesse, forsennatamente. E l’artista, attento, con antenne sempre ben direzionate, rispondesse, ma comunque indicando la via che scopre. L’opera è calibrata indosso al modello con la sapienza tecnica del grande artigiano, del sarto d’alta moda, che prova e riprova il capo indosso al cliente finché entrambi, lui e il cliente, non sono pienamente soddisfatti. E la soddisfazione la si può leggere su questi volti così trasformati, magari meno canonicamente belli, ma finalmente, utopicamente consapevoli del percorso di ricerca di verità che li ha portati a diventare opere d’arte.
Vingt Pieces Fragiles
Catalogo, Galleria Analix Forever, 1992
Emanuela De Cecco
Il primo attributo è lo scarto delle dimensioni. Le personcine di Leonardo Pivi sono infatti ricavate da piccole pietre minuziosamente scolpite. Rappresentano un’umanità dolente eseguita con un procedimento antico che segna una presa di distanza volutamente inequivocabile dall’immaginario che siamo soliti frequentare. La trappola è innanzi tutto una trappola per chi guarda. La sofferenza, il gesto violento (e non a caso Mima mangia anima era il titolo di un lavoro che dava il nome ad una sua mostra del 1992), i temi sacri, sono argomenti ricorrenti in queste creaturine aggressive e nella loro disposizione. Verifichiamo quotidianamente che i nostri occhi hanno raggiunto una sorta di assuefazione alla rappresentazione del dolore. I morti di morte violenta ci vengono riproposti dai media uniti ad una serie di effetti placebo che funzionano bene per ricondurre ciò che vediamo ad un magma indistinto che, nel cambio del canale, contempla una effettiva possibilità di distrazione, di fuga. Le grandi messe in scena dell’immagine rientrano nell’arredamento con cui conviviamo abitualmente; difficilmente la Disneyland del dolore è quello che davvero ci commuove; accade così che ciò che è piccolo, scarsamente visibile o addirittura già scomparso diventa in realtà ciò che ha ancora la capacità di sconvolgere. Così la rappresentazione del sacro oggi, e quindi l’immaginario cattolico – sia perché la perdita di centralità della dimensione religiosa ha eletto nuovi dei, sia perché affrontare un confronto con un’iconografia troppo importante è difficile – è spesso incapace di produrre scenari contemporanei con immagini nuove che abbiano il sopravvento su quelle del passato. Ecco che, per queste ragioni, è un atto di coraggio scolpire un crocefisso piccolo piccolo con un corpo sofferente che esprime un dolore sordo ed insostenibile perché l’ombra che lo minaccia viene dall’alto (il Padre?) ed è troppo più grande del resto. Ed è anche una metafora della condizione umana e sappiamo bene cosa voglia dire, di fronte ad eventi ingiustificabili, sentirsi fuori taglia per difendersi, piccoli, doloranti, inadeguati… Le microsculture di Pivi sono violente nel costringere ad uno sforzo di attenzione (bisogna avvicinarsi per vedere le conformazioni dei volti e le espressioni così come si teme che possano perdersi, confondersi nella ghiaia, sparire per distrazione) e, per assurdo se si pensa quanto sono inattuali e provocatoriamente improponibili rispetto a tutto il resto, riaprono ferite cicatrizzate negli sguardi indifferenti.
Juliet n. 95, pag. 80, 2000
Anna Malapelle
La personale di Leonardo Pivi alla Giarina si apre in un percorso inquietante ricco di stupore. “Stop and Go” è un viaggio che distilla la storia dell’arte alla ricerca di uno stile, il luogo dove l’artista nutre il suo immaginario nel terreno del fantastico con la consapevolezza del confronto con il futuro. Un “troglodita post moderno” sotto tortura patisce le pene dell’inferno sospeso in un grande sfondo azzurro. “Le immagini a volte brutali, altre volte delicate che animano l’immaginario di Pivi – scrive Guido Molinari– ora vengono rese da colori accesi, in una ricerca tonale che volge all’essenzialità”. Ogni stanza è caratterizzata da un colore primario dove la figura fluttua tra il turbamento e la provocazione. Figure androgine celano un sesso incerto pronte a esprimere supplizi che oggi ci disorientano. Bisogna ricordare che l’artista ha realizzato in passato oltre che le sculture più conosciute, mosaici e affreschi, che se vogliamo procedono idealmente queste tempere: oggi le tensioni stagnanti ci fanno riscoprire un mondo irriverente legato all’atto del dipingere.
Lo spirito dopo la contaminazione
By pass 1996
Guido Molinari
Una forza primordiale e arcaica percorre le opere di Leonardo Pivi: sculture in cemento armato, sassi scolpiti ma anche immagini in computer graphics o interventi sul corpo che hanno come comun denominatore la carica fantastica di un ipotetico immaginario medioevale, accanto ad una spinta verso alterazioni e mutamenti propri dell’universo massmediale. Leonardo Pivi integra perfettamente l’ambito artistico legato ad on fare materiale (scolpire, disegnare) con i mezzi freddi relativi alla morte dell’arte (video, diapositive, ready made ecc…) giungendo ad una sintesi in grado di condurre energie che attingono ad una dimensione atavica. Convivono fianco a fianco, a volte pervasi da una carica sottilmente ironica, elementi mitici, simbolici, religiosi accanto a personaggi e figure proprie del mondo dell’infanzia: pinocchi e puffi inquietanti immersi in un’operazione di straniamento e di alterazione, generata dagli stessi meccanismi dell’universo onirico.
Disossando personaggi
By pass 1996
Guido Molinari
Protagonista del video è on piccolo drago, simpatico anche se mostruoso, intento a compiere atti bizzarri di autolesionismo: l’animale fantastico appare impegnato a percuotersi con vibrate martellate i propri testicoli posti so di on incudine. Ormai sappiamo che i meccanismi che sottendono alla risata, allo humor, all’ironia sono estremamente prossimi a molti effetti di straniamento che possiamo riscontrare nei sogni o in molte opere d’arte contemporanea. L’effetto comune è senz’altro lo sprigionamento di cariche emotive e di energie psichiche le quali, nel caso dell’arte, sono strettamente legate non solo al contenuto ma a tutto il sistema di realizzazione dell’opera. Nel nostro caso siamo in presenza di uno sconfinamento dall’ambito scultoreo, punto di partenza dell’operazione, per approdare a territori in cui è in atto un’opera di incarnazione del personaggio in materiali molli, mobili, appartenenti al regno del presente, tali da generare una creatura senza ossatura, senza apparato scheletrico. Se da un lato la componente “soft” del materiale rimanda, conic nel caso dei testicoli ridicolmente allungati, all’elasticità e alla malleabilità dei corpi nei cartoni animati, la componente “hard” è rintracciabile nella tecnica di animazione, realizzata registrando alcuni fotogrammi al secondo: l’effetto percepibile sul soggetto in azione sarà quello di un movimento meccanico, forzato, frutto di un’animazione estremamente arcaica, scarna ed essenziale, primitiva. La scena si presenta dunque in maniera dura e diretta: abituati ormai alle azioni spesso violente della Body Art, ci troviamo ora di fronte ad un passaggio dall’impiego del corpo umano come soggetto dell’opera e all’impiego di un corpo mutante, mass mediale, imprendibile, legato indissolubilmente all’immaginario televisivo e pubblicitario attuale. La stessa tecnica di animazione utilizzata per far vivere le creature fantastiche dei film mitologici degli anni Sessanta viene assorbita e riutilizzata dall’artista per infondere vitalità ad on personaggio che si muove so di uno sfondo neutro e semplice, in grado di evocare nella sua essenzialità alcuni episodi del “Carosello” televisivo a coi assistevamo da piccoli, ormai parte dell’immaginario collettivo degli appartenenti alla nostra generazione.
Divinità in cemento armato
Operat 1995
Guido Molinari
La gigantesca statua di Michael Jackson che improvvisamente si anima e guida una parata in cui la folla segue il son idolo in un tripudio di colori, oppure i giganti d’argilla, vivi ma goffi e schematici, nati dalla fantasia delle protagoniste del film di Peter Jackson. “Creatore del cielo”, costituiscono all’interno dei media alcuni esempi di come venga conferita nuova vita al mito.
In ambito artistico le strade che, parallelamente ma con altri esiti, percorre da tempo Leonardo Pivi, riguardano, una ricerca in cui la consapevolezza del presente induce ad indagare oltre l’insabbiamento sublimale le trasformazioni tecnologiche e culturali in atto.
Il mass mediologico Marshall Mcluhan sosteneva che nell’età contemporanea noi viviamo miticamente ma continuiamo a pensare frammentariamente e su piani distinti; Pivi ci aiuta a pensare miticamente, in piena sintonia con il “campo totale” in cui ci troviamo sempre più coinvolti nell’età elettrica.
Il distacco del chirurgo dalla sofferenza del suo paziente rappresenta un esempio agli antipodi della situazione che si configura attualmente nella società: i media, governati sempre più da fenomeni di azione e reazione istantanei, ci pongono in stretta vicinanza l’un l’altro, provocando in noi un’alta partecipazione emozionale in grado di coinvolgere la totalità del nostro sentire.
A questo processo in atto di “contrazione” del mondo, corrisponde analogamente la condizione mitica a cui siamo soggetti quotidianamente, la quale implica una condensazione di molteplici componenti in grado di fare leva su sentimenti profondi e diffusi. L’opera presentata in quest’occasione da Pivi si articola in più elementi: una statua in cemento armato risultato di un mixaggio, o meglio di una permanente dissolvenza incrociata tra le figure estremamente stilizzate di Cristo e di Budda e il video connesso, in cui la stessa statua è colta su un cavalcavia nell’atto di gettare una pietra sulla trafficata autostrada sottostante.
Due differenti livelli di genesi del mito vengono fatti scontrare nell’opera. Da un lato, se prendiamo in esame la sola statua, possiamo individuare tracce di mitopoietica “diretta”, cioè codificata “dall’alto”, fondata su una tradizione iconologica antica legata alle immagini sacre e istituita in origine per comunicare in maniera immediata gli insegnamenti religiosi.
Dall’altro, se osserviamo il video, possiamo constatare come un particolare fatto di cronaca nera sia chiamato a rappresentare un caso di mitopoietica “spontanea” Un atto delittuoso, moralmente riprovevole, tramite l’immediata risonanza dei media dà origine a comportamenti analoghi, fino a costituirsi come modello, proiezione diffusa, simbolizzazione inconscia di profondi disagi e angosce. Pivi dunque da un lato attinge ad un repertorio già codificato per ridare nuova sostanza a vecchie immagini mitiche, dall’altro si ricollega all’attualità, alla nuova universalità del sentire e del vedere per constatare come le tecnologie contemporanee ci conducano inevitabilmente verso sempre maggiori gradi di angoscia e di coinvolgimento emozionale, in questo secolo segnato non solo dalla psicanalisi ma anche da una richiesta di consapevolezza dell’inconscio a cui non e estranea la stessa esplorazione artistica.
Bisognerà sottolineare come nell’opera non si voglia dare un giudizio morale sull’evento: non e nei propositi dell’artista mettere in scena un’entità divina punitiva e malvagia, come erroneamente potrebbe apparire. Annullando ogni ‘punto di vista” particolare, così da impedire una frammentazione e una distinzione in piani, Pivi, tramite il linguaggio artistico, ci spinge verso un’adesione immediata, mitica e in profondità al fatto. Il suo inteiiento si concretizza dunque nell’innescare un processo creativo di conoscenza in cui la simulazione ha il compito di dare ita al mito e allo stesso tempo di evidenziarne i processi di simholizzazione inconscia sino alla rivelazione.
Terra Sconsacrata
Anima mangia anima, Galleria Neon, 1992
Alessandro Pessoli
Se penso alle testine realizzate scolpendo con un cutter dei piccoli sassi, mi vengono in mente i luoghi nei quali sono stati raccolti: vialetti di un cimitero, nelle vicinanze di chiese, alcuni, levigatissimi, nei torrenti.
Tutti scelti uno ad uno, alcuni per la foggia, altri per il luogo d’origine.
Scolpiti in forma di teste diventano una piccola folla di anime in pietra.
Queste testine possiedono ciascuna una propria identità, mettono in atto uno scarto temporale, denunciano la loro inattualità. Non appartengono, infatti, all’immaginario intercambiabile del quotidiano; la loro origine fisica e mentale le pone al di fuori di una qualsiasi geografia “medialista”.
La loro linfa non è attinta da uno “stato delle cose” attuale; sono sculture per vocazione, nascono e sono comprese nello spazio delle mani, presuppongono l’intervento diretto della manualità dell’artista.
Quasi una volontà animistica dona a queste “personcine” pietrificate una spiritualità che le riporta al centro dell’atto creativo.
Essere venuti da lontano
Catalogo Mediterraneo, 1997
Francesca Pietracci
“Mai impariamo così ben come quando inventiamo”, ha affermato Jean Piaget, psicologo dello sviluppo; infatti è proprio attraverso l’invenzione di un nuovo aspetto psico-fisico che molti artisti, in questo momento, stanno portando avanti un discorso che si potrebbe riassumere nel concetto di “uomo del millennio”. Tra mitologia e fantascienza, tecnologia e primitivismo, quello che emerge è l’interesse per un nuovo essere capace di contenere l’evoluzione, la trasformazione, lo stato perfetto ed ultimo. Le culture sorte nell’area del Mediterraneo si amalgamano e si intrecciano rispetto a questo interesse e quello che ne emerge è, appunto, un’ipotesi di futuro fondata su differenti tradizioni e mitologie delle origini.
Tommaso Lisanti è un raffinato conoscitore della mitologia classica, i suoi angeli tecnologici sono esseri che hanno scoperto il segreto dell’eterna giovinezza, sono creature che frequentano lo spazio delle nostre civiltà acquistando, man mano il dono dell’incorruttibilità.
Ma se per tutti il sogno di eternità è sempre latente ed è sempre proiettato nel futuro, per Matt Marello (U.S.A.), in questa ultima serie di lavori, questo interesse si rivolge al passato. Il film sulla grande catastrofe di Pompei, distrutta dal terremoto nel I sec. d. C., è la scena nella quale si svolgono il suo video e i lavori fotografici tratti da esso. D’improvviso il volto dell’artista si scorge qua e là tra la folla impazzita, è una presenza estranea, capace di tutto, anche di rivivere il passato.
A proposito di passato Leonardo Pivi inventa esseri capaci di riassumere la specie umana e quella animale, una sorta di divinità protettrici che sopravvivono ai monumenti, alle città, alle pietre incorruttibili. Le sue sculture osservano lo sfilare dei secoli, dilatando i propri occhi e assumono i tratti somatici tipici delle maschere africane.
E proprio dall’Africa arriva Fathi Hassan, dalla nobile terra di Nubia, a proporci una nuova mitologia, quella dell’elefante sacro, secondo lui progenitore del genere umano. Questo animale contiene la memoria del mondo e, per mezzo di essa, dalla sua testa fuoriescono esseri viventi e parole, nuove mitologie che si connettono tra loro eseguendo un giro di giostra, una danza ancestrale.
E ancora l’Africa viene rappresentata nell’opera di Giorgio Lupattelli, ma qui è l’attualità ad interessare l’artista, la violenza, lo scontro, il massacro. Nella sua installazione l’uomo, il mitra e il continente si guardano, cercando un’intesa impossibile, convivono drammaticamente, così come, senza provare particolare sconforto, quotidianamente vediamo nelle immagini televisive.
Sabato Angiero recupera invece il libro, la carta stampata, come oggetto deteriorabile e come concetto in sé. Il volto di Karl Marx fuoriesce da questa stratificazione di pagine attraverso piccole combustioni che, come pennellate, incidono e distruggono il messaggio scritto acquisito. Soltanto alcune parole restano leggibili, alcuni frammenti di frasi, impresse nella memoria e riconnesse tra loro in cerca di un nuovo significato.
Andrea Renzini predilige la comunicazione tecnologica, i suoi personaggi provengono dal mondo del fumetto, ma da esso si emancipano per conquistare un loro reale territorio, si appropriano di un loro spazio e, attraverso le loro fattezze allungate ed eteree, propongono un nuovo modello estetico.
Maria Semeraro crea Oliver, un personaggio capace di mutevoli sembianze, capace di apparire e scomparire, di penetrare le idee e le forme, capace di navigare all’interno e all’esterno dell’arte, di scoprirne i misteri, di percorrere gli spazi delle motivazioni interne.
La sua missione speciale consiste nell’individuare segnali di unità. Diversa la tendenza alla trasformazione di Stefano Scheda. Le sue grandi immagini fotografiche rappresentano uomini dalle carni oltraggiate dagli agenti atmosferici. Il suo lavoro si può considerare una prova di sopravvivenza alla morte formulando l’ipotesi che il nostro fisico possa allenarsi a sopravvivere percorrendo il fuoco, l’acqua, l’aria e la terra.
Per Francisco Smythe (Cile) la percorribilità dello spazio e del tempo è rappresentata da una mente capace di trasformare in un vortice creativo le varie esperienze. La sua è una concezione di circolarità, di sistema globale e compiuto acquisita attraverso l’esperienza del viaggio e, in particolare, dell’Italia. Il problema dell’uomo che genera l’estinzione delle altre specie animali è il tema centrale dell’opera di Andrea Neri. Servendosi di una tecnica composita, che recupera la tradizione artistica del passato attraverso l’encausto e l’affresco, l’artista pone come emblema dell’operato umano e del suo lavoro un uccello rapace, vittima e assassino nello stesso tempo, immagine problematica del passato e del futuro.
Venerdì di Repubblica
articolo, n°1062, pag 86, 2008
Ludovico Pratesi
Biennale di Carrara dove l’arte è una verità scolpita nel marmo.
Tante novità, tutte rigorosamente in marmo, a partire dalle opere monumentali realizzate da maestri dell’arte di oggi come Mario Merz, Louise Bourgeois, Pietro Cascella. Giulio Paolini presenta invece “Aula di scultura”, un’installazione collocata tra i calchi delle statue classiche nell’aula magna dell’Accademia di belle arti. Con i grandi sfila però anche un gruppo di giovani artisti che si dedicano al figurativo in maniera ironica con opere come “la Nonna” di Paolo Schmidlin o “Ma va’ a Fano” 2004 di Leonardo Pivi. Immagini forti e dirette,che uniscono abilità tecnica con una buona dose di umorismo tutto italiano, che a Michelangelo non sarebbe dispiaciuto.
Vingt Pieces Fragiles
Catalogo, Galleria Analix Forever, 1992
Gianni Romano
Sebbene la combinazione atipica dei manufatti provenga dal sociale – del quale l’arte rappresenta qualcosa di più che una semplice generalizzazione o un approfondimento – quando il processo di definizione si realizza nella prassi ii suo significato semantico si allarga lino alla negazione del segno stesso e alla comprensioni di elementi altri.
Per Leonardo Pivi, prassi e costruzione poetica coincidono, i materiali – pur coinvolti nel processo di ricerca dell’immagine – scartano la tentazione iconografica optando per immagini povere, primordiali.
II materiale non parla di sé, non racconta la propria storia, ma entra in osmosi con un’immagine in progress. Per artisti come Pivi, tuttavia, la materia è ancora argomento di conversazione con la quale l’opera si carica di significati, ma non si tratta tanto di una predilezione materica dell’artista. Segni, simboli, materiali.., nelle opere di Pivi riconducono ad un’idea di fisicità. La materia di Pivi ci parla della fisicità, dell’essere della presenza delle cose e degli uomini.
Quando ogni discorso si limita alla forma, la forma limita il discorso. La forma da sola contiene un campo di indefinizione tale da permettere a chiunque di giocarci, ma a pochi di trarre conclusioni. Non sembrerà strano considerare le opere di Pivi come prova finale che scaturisce da un lato da una grande attività la produzione di disegni /schizzi accenni (che l’autore non espone o espone con ritrosia), da un altro punto di vista è questa stessa attività che diventa filtro per la miriade d’immagini che costituiscono il nostro consumo quotidiano, l’immagine “così com’è” viene messa a dura prova.
Eppure Leonardo Pivi rischia di cadere nella sua stessa “trappola” quando adopera la croce – il più totalizzante dei simboli, pura rappresentazione, supporto della meditazione – il tentativo più riuscito di tradurre adeguatamente il divino. L’artista riesce comunque a stravolgere col gioco formale i destini del segno e il proprio rapporto con la rappresentazione. violata attraverso la metafora dell’imbuto aperto al mondo e dell’icona circondata da cadaveri animali. Se è vero che l’icona è la giustificazione autoritaria delle crisi iconoclaste, Pivi l’adotta nel modo più corretto, combinando pragmatismo e scetticismo.
Vanitas musiva
catalogo Terra bruciata, 2014
Massimo Pulini
Tra il quarto decennio del Seicento e la metà del secolo successivo i vertici vaticani misero in atto un piano che portò alla sistematica sostituzione dei dipinti che erano collocati negli altari della Basilica di San Pietro. Le ragioni dell’allontanamento di grandi capolavori pittorici come quelli di Guercino o di Poussin, di Valentin o di Domenichino non furono di ordine estetico, come a volte successe nella storia della chiesa, ma di carattere materico, inerenti a questioni chimiche e fisiche, come dire: conservative. Anche se al tempo si trovavano in buono stato, al posto delle tele si iniziò a porre le copie di quei dipinti realizzate in micromosaico, mirabili per qualità ed efficaci nella resa mimetica, ma soprattutto, attraverso gli impasti vitrei delle tessere, avrebbero sopportato l’usura dei secoli molto meglio della tela e della pittura a olio.
L’intera vicenda si compì attraverso un processo lungo ed estremamente complesso a dimostrazione del lucido programma di “durata” concepito per la chiesa di tutte le chiese, per la suprema basilica del culto cristiano. La tecnica del mosaico dunque veniva e viene tuttora considerata uno strumento di eternità, comprovato dalle antiche ville romane, dalle vestigia ravennati e dai grandi cicli decorativi bizantini.
Questa lunga premessa serve a presentarmi con una certa disposizione d’animo davanti ad alcune opere di Leonardo Pivi. Mi riferisco in particolare a quelle in cui l’artista recupera un semplice periodico illustrato, di quelli che solitamente hanno una cadenza e un consumo settimanale o mensile, e vi incastona un proprio mosaico restituendo mimeticamente il volto del protagonista di copertina. Oppure alle opere che proiettano a muro la “schermata” di una pagina web sostituendone la parte fotografica, attraverso una impervia tecnica musiva. Qui lo strumento minerale di eternità entra a gamba tesa nella cronologia del deperibile e nei luoghi dell’immateriale.
Raramente un’opera d’arte contemporanea trova il talento del pensiero e la fermezza della mano per centrare un bersaglio così mobile e ineffabile quale è il Tempo. Quasi mai riesce a ferire il presente attraverso frecce linguistiche antiche come la pietra, rinnovandone l’acuminatezza con tagli mediatici e sensoriali.
Agendo sull’espediente dell’illusione, veicolo naturale delle arti visive; in virtù di una tecnica sopraffina, frutto di pazienza e sensibilità; ma grazie anche a un ribaltamento temporale, che scarta ogni gerarchia tra durata e fugacità, l’artista costruisce un gioco di prestigio impeccabile.
Nel Seicento i dipinti chiamati “Vanitas” raccontavano il transeunte disponendo sul piano di una natura morta tutti gli strumenti delle arti (dal liuto alla tavolozza, dalla penna d’oca allo scalpello), ponendoli vicini ai simboli dell’effimero: il fumo di una candela spenta, una bolla di sapone o un soffione di tarassaco. Si parlava così dell’inutilità degli sforzi umani nella loro gara col tempo, cercando tuttavia livelli di esecuzione virtuosistica, di qualità concettuale e di trasporto sentimentale tali da contraddire sul nascere quel postulato di vacuità. In modo non tanto dissimile, anche se fuori dalle formule di qualsiasi genere, Leonardo Pivi parla ora di una “Vanitas” del linguaggio, della comunicazione e forse delle stesse relazioni umane facendo scorrere il naspo, che determina la trama dell’opera, dall’attimo all’eterno e viceversa.
Amor platonico. Leonardo Pivi e il marmo
Artribune online 15 luglio 2014
Ginevra Bria
Lo spazio unico e omogeneo di Gluck50, a pochi metri dalla Stazione Centrale, accoglie, dopo Thiago Rocha Pitta e Yuki Kimura, Platonic Love, la personale di Leonardo Pivi (Cesena, 1965; vive a Milano e Riccione) ideata appositamente per lo spazio espositivo come risultante del corso di residenza per artisti avviato nel 2013. Fin dalla sua costituzione, Gluck50 – allestendo anche spazi urbani esterni alla galleria – documenta la crescita contemporanea di artisti emergenti e non, condividendo e contemplando la realizzazione di progetti originali e complessi. Platonic Love, come un trattatello visuale sulla nostalgia di una classicità mai raggiungibile, si propaga nello spazio declinando ideali tridimensionali e bidimensionali. Modelli di forma e volumi costituiti seguendo l’irriverenza di accostamenti e di figure di pensiero contemporanei. Tra bambole gonfiabili e manichini, la mostra decifra la spontaneità della bellezza come espressione di un’inquietudine interiore dis-umana, ibrida e dunque metamorfica.
Platonic Love
Catalogo, Mousse 2015
Michele Robecchi
Michele Robecchi: L’amore platonico, nella sua versione contemporanea, rappresenta qualcosa di irrisolto, con molte zone d’ombra. Quando hai scelto di intitolare questo progetto Platonic Love a cosa hai pensato? Alla relazione che esiste tra i lavori in mostra, al tuo rapporto con loro, o a come è mutato il concetto di amore platonico dai tempi della sua concezione al presente?
Leonardo Pivi: Scegliere il titolo di una mostra a volte è molto difficile. Deve racchiudere il senso di un progetto. Nel caso di “Platonic Love” credo ci sia spazio per una lettura piuttosto aperta. Si riferisce chiaramente a un mondo antico, però io l’ho vissuto anche in chiave un po’ ironica. L’immagine fotografica che ho scelto per rappresentarla, Neoplatonic, con due teste mozze che si guardano, esalta il contrasto tra un titolo così lirico e un’immagine così cruenta.
MR: La decisione di adottare due teste di matrice classica e il riferimento all’antica Grecia apre però la porta a molte analogie. Mi dicevi che sei affascinato dalla figura del Kouros che cammina…
LP: Mi hanno sempre affascinato queste figure arcaiche che hanno un’idea di rigidità ma che imprigionano al tempo stesso una specie di tensione. Forse è un aspetto più evidente nel mio lavoro vecchio. Ho fatto alcune sculture in cemento armato che si ispiravano apertamente alle statue da cui poi nasce tutta la cultura ellenistica. Mi piace l’idea della statuaria che inizia a camminare, che prende movimento per poi sfociare nel barocco e nel rinascimento, dove tutto diventa leggero e volatile. Mi hanno sempre affascinato questi valori plastici che si modificano nei secoli e a volte poi tornano alle origini per riprendere forza dalla staticità iniziale, che poi non si tratta solo di una staticità formale ma anche di pensiero.
In Anima Mundi, una delle sculture che ho fatto per questo progetto, sento molto l’arcaismo – forme primordiali e latenti che si nascondono all’interno della mia opera e che hanno contribuito a costruirla. Forse queste mirabili sculture dell’antico mi hanno ispirato anche a livello inconscio. L’essere ancorato alla tradizione è un tema che sento molto. Il mio lavoro ha una matrice manuale, tecnica, e questo per forza di cose prevede un rapporto diretto con la storia, fatto di negazione ma anche di conoscenza.
MR: È una decisione pericolosa quella di misurarsi così direttamente con la storia dell’arte.
LP: È vero. Ci sono stati momenti in cui sono stato tentato di tagliare il cordone ombelicale con il passato e separarmi da questa linfa vitale che mi nutre, ma è un confronto di cui ho bisogno. Guardare avanti, ma con gli occhi rivolti alla storia, è una necessità. Mi è più facile guardare ciò che è distante nel tempo piuttosto che quello che è successo ieri, ma non tanto come ricerca o interesse. È uno stato d’animo che si crea quando per caso mi trovo in un luogo in cui scopro delle cose, come un museo di archeologia. Magari si tratta di cose banali, ma in quel momento mi donano le energie giuste per formulare nuovi riferimenti.
MR: La storia cambia anche a seconda del momento in cui la si osserva. Il modo di intendere l’arte a cui fai riferimento oggi non è lo stesso di cinquant’anni fa.
LP: Infatti, la storia dell’arte che abbiamo costruito su artisti maggiori e minori è tutta da rivedere. Cambia con il tempo che passa. Ci sono artisti e opere magari considerati ordinari nel passato che oggi, dopo la consacrazione di altri artisti, acquisiscono una grande importanza. Io per esempio vedo Filippino Lippi come il maestro di Leonardo. E, per restare in tempi più recenti, ho sempre considerato importanti artisti della scuola romana che oggi non sono proprio stati eclissati, però ridimensionati. Penso agli artisti del Gruppo Forma Uno, Turcato, Scanavino, Sanfilippo.
MR: Cosa ti affascina degli artisti della scuola romana?
LP: Forse il valore poetico. C’è una sensibilità materica che mi ha sempre interessato. Ricordo che agli inizi degli anni Ottanta andavo spesso a Roma e guardavo artisti come Schifano, Tano Festa, Lo Savio ed ero innamorato dell’uso molto avanzato che facevano della pittura e della fotografia.
MR: Sei consapevole quindi dei rischi che si corrono a utilizzare un linguaggio legato al passato?
LP: Certo, la mia preoccupazione principale è quella di essere frainteso. Si rischia sempre di cadere non dico in una contraddizione ma in una forte perdita, perché non ci sono raffronti. Ma l’arte è bella proprio per queste mille sfaccettature, per queste libertà di pensiero che possono spaziare in qualsiasi direzione. Il mio desiderio però è anche quello di rimanere legato a un mondo che non può essere dimenticato e dove c’è ancora molto da scoprire. Penso anche che questo progetto con il marmo, per come l’avevo concepito, nasce dall’aspirazione di scoprire nuove sensazioni e nuove emozioni dentro la materia, che spesso è considerata priva di vita e di significato.
MR: Questo mi riporta a una discussione che abbiamo fatto all’inizio di questo progetto, quando riflettevamo su come il marmo abbia un valore e una connotazione diversa in Italia rispetto ad altri paesi.
LP: Quella volta mi è piaciuta la tua affermazione che Carrara è come la Lourdes del marmo. Rispecchia perfettamente una realtà molto delicata. Tanti artisti vanno a Carrara per risolvere problemi formali ma è difficilissimo. A volte penso che gli artisti che delegano totalmente la parte manuale del lavoro ad altri devono stare più attenti di me. Il rischio di incorrere in delle contraddizioni è alto.
Circa il marmo, mi piace l’idea che dentro una scheggia, o un reperto, si possa nascondere il DNA di una storia che ci appartiene. Mi emoziona girare per la strada a Roma e vedere un pezzettino di marmo inciso dove non si legge più una scritta, una forma, una figura, ma che tuttavia riporta subito ad un insieme che è quello di una cultura e di una storia millenaria. Anche a livello di datazione, ti sbagli pochissimo. Dentro questa materia avevano inoculato la base di un’epoca e di una storia. Secondo me nel marmo si trovano grosse informazioni. Non credo che sia stato detto tutto e che non ci sia più niente da scoprire o da svelare, anche perché i materiali naturali, come il legno, il marmo, l’osso o l’avorio, al contrario della plastica o dei metalli o altri materiali di sintesi, hanno un fascino particolare. Siccome non li ha fatti l’uomo, hanno un manto di mistero.
MR: Anima Mundi è fatta in marmo ma anche di bronzo. Hai tenuto conto di questa considerazione su materiali naturali e artificiali al momento di realizzarla?
LP: Sì, assolutamente. Il bronzo è un’invenzione, e secondo me dentro le invenzioni è tutto più controllabile, più gestibile. Ma l’avere dei corpi estranei che possano interagire tra loro è un discorso diverso. Negli anni Ottanta ho fatto delle sculture che chiamavo “parassite”, dove prendevo manufatti già esistenti e ne stravolgevo il senso. Ho fatto alcune cose che poi non ho neanche mai esposto.
MR: Un tuo lavoro che mi è piaciuto molto è la serie di copertine di riviste e giornali realizzate con la tecnica del mosaico, in particolare il contrasto nel vedere la velocità e l’immediatezza dell’informazione immortalate attraverso un linguaggio lento, meticoloso e ricco di storia come il mosaico.
LP: Sì, il mosaico ha questo potere. Sono molto legato a quel lavoro, però devo dire che anche se a livello mediatico comunica molto, perché usi un mezzo di comunicazione immediatamente riconoscibile come il cartaceo, io lo vedo come un lavoro profondo. Che poi non è un ciclo che si è esaurito, è solo che ogni tanto ho bisogno di fare delle pause per avere gli stimoli per riprenderlo di nuovo. Quando lo farò sarà molto cambiato a livello iconografico. Le riviste patinate cambiano moltissimo da un punto di vista visivo e dimensionale nel giro di qualche mese. Mi divertivo a prenderne alcune proprio per i titoli sempre uguali in copertina. Ce n’era una che diceva “Come te nessuno mai”, non importa se si trattava di Valentino Rossi, Pantani o Schumacher.
Il mosaico crea un cortocircuito, uno spiazzamento, proprio perché a differenza della pittura, che visivamente viene assimilata in un altro modo, è una costruzione. Quando vedi un mosaico pensi a un qualcosa che viene assemblato, incastrato, costruito, come un intarsio. L’immagine vive di un’identità che a volte sfugge perché non capisci da dove comincia. È un labirinto dove alla fine il risultato ha un aspetto che non cogli.
“Corpo estraneo”, la mostra che ho fatto nel 2004, nasceva proprio dall’esigenza di inserire dei packaging o degli elementi della nostra società con violenza all’interno di questi linguaggi.
MR: Parliamo della residenza da Gluck50.
LP: Si tratta della mia prima residenza. È stata un’esperienza fantastica. Mi sono accorto che il lavoro non cambia solo aggiungendo qualche intuizione, cambia per via delle diverse abitudini, situazioni, rapporti sociali. Anche lo spazio abitativo. La luce, per esempio. Qui c’è una luce bellissima. E poi sento l’energia degli artisti che mi hanno preceduto. Anche in cose piccole, come il frigorifero o lo studio. Ho trovato cose che hanno lasciato gli altri, e quando arrivi le senti subito, a livello di metabolismo.
MR: Sei partito con un foglio bianco oppure avevi già delle idee?
LP: Avevo già delle idee, poi in corso d’opera molte cose sono cambiate. Alcune idee che erano ben chiare si sono annebbiate mentre altre che erano meno chiare hanno trovato una forma. Una cosa importante da dire è che l’aspetto di crescita maggiore si verifica nel momento in cui ti accorgi che il lavoro è quasi quotidianamente sottoposto a un confronto con gli altri. Lo studio è sempre aperto e sinceramente, per come sono fatto, non ero pronto. Quando lavoro sono schivo, a volte ho quasi un rifiuto totale a confrontarmi con il mondo perché ho paura di distrarmi. A volte basta una piccola battuta o un commento ad alta voce per infastidirmi, sono abituato a lavorare con grande riservatezza. Però in residenza mi sono accorto che questo è un problema che si può risolvere. Il dialogo continuo per me è stata un’esperienza formativa. Ci sono dei lavori in mostra che avrei potuto fare solo qui. Prendono i connotati del luogo in cui li fai, come ad esempio i due Lari.
Devo anche dirti che mi ero portato dietro due sculture da viaggio che pensavo di poter ultimare qui e che poi ho riportato indietro. Non so esattamente il motivo, ci devo ancora ragionare sopra, ma credo sia perché è difficile far diventare una cosa parte integrante di un luogo se la metti accanto ad altre che sono state germinate e concluse qui. I Lari vivono di una materia che ho scoperto a Milano. Sono andato in giro per la città a cercare i pezzi per realizzarli.
MR: Da dove nasce l’idea di fare dei Lari con dei pensieri tridimensionali che gravitano sopra la testa?
LP: Forse nascono da questi disegni di figure grottesche che faccio da tanti anni. Volevo dar forma a delle idee che avevo da tanto tempo. Queste due figure che diventano come due guardiani dell’abitazione, due antenati, due fantasmi se vuoi, riflettono il fatto che storicamente i Lari erano di buon auspicio. Erano sculture intorno a cui si propiziavano molti riti, non solo sacrificali, ma anche di augurio – giovani che diventavano maggiorenni, ritorni dalle battaglie, ecc. Mi pare che addirittura fossero usati come lapidi. Ci tenevo a costruirli con le rovine di una società che ha bisogno di riprendere una forma, con i monumenti che si stanno sgretolando, i pensieri che incombono sulla testa. È un’immagine inquietante, che cita il disfacimento contemporaneo, però penso che ci sia anche un velo d’ironia. Un po’ come nell’opera Embrioni. Le sculturine in pietra a prima vista diventano quasi commestibili dentro gli involucri sottovuoto di nylon trasparente, un materiale che si usa per conservare gli alimenti.
Questi contenitori per me sono come delle placente artificiali che hanno il potere estetico di “ibernare” queste piccole sculture imprigionandole dentro compartimenti stagni atti a favorirne la lunga conservazione. In realtà amo mescolare l’ironia ad un espressività inquietante, un po’ drammatica e destabilizzante.
MR: Il progetto prevede anche una scultura in Piazza XXV Aprile. Come ti poni davanti all’annoso dibattito che al contrario dello spazio espositivo, Platonic Love si confronterà con un pubblico che non è lì necessariamente per vederla?
LP: Non mi spaventa, anzi mi eccita, il fatto di confrontarmi con il pubblico di strada. Chiaramente il messaggio è fruito in un modo molto diverso, ma lungi da me l’intenzione di imporre qualcosa. Anni fa un mio amico ha fatto una mostra che poi è stata censurata. Venne da me a chiedermi di firmare una lettera per prendere le sue difese. Mi ha seccato perché credo che un artista debba avere una soglia di autocensura. Deve sempre essere gratificato e difeso innanzitutto da se stesso. Deve decidere cosa è lecito fare e non fare secondo la sua morale. Quando ho pensato a questo lavoro, mi sono chiesto se era volgare o fastidioso. Mi ha convinto il fatto che al contrario rovescia automaticamente tutto un mondo di problematiche che riguardano la pornografia. Non volevo suscitare un’immagine violenta.
MR: Però rimane una possibilità.
LP: In che termini? Così cogli la scultura al contrario di come la colgo io. Mi spaventa quello che dici.
MR: Non è come la colgo io, è come può essere colta in generale. La ricezione di un’opera d’arte dipende solo al 50% dall’artista. Sentendoti parlare di violenza e pornografia mi fa pensare che tu abbia comunque considerato tutte le possibili associazioni mentali che Platonic Love può provocare.
LP: Sai, sono comunque degli elementi di disturbo, che volevo emergessero. La mia vita come credo la vita di tutti è stata contaminata da miriadi di immagini shoccanti e violente che mettono a dura prova la nostra psiche. L’intenzione originale che trapela in questa nuova serie di sculture era desiderare che alcune tematiche che mi turbano come la violenza e la depravazione in questo progetto cambiassero un po’ di senso.
In Platonic Love l’aspetto plastico e armonioso di questo imponente giovane guerriero, forse romano, attutisce enormemente l’impatto pornografico della composizione. Questo energumeno d’altri tempi dallo sguardo seducente rivolto altrove pare non preoccuparsi troppo di quello che sta accadendo tra le sue braccia. Ho creato una scena carica di rimandi che potesse in qualche modo disturbare la comprensione del messaggio che in realtà non è affatto rassicurante. Il corpo volgare della bambola gonfiabile, per come la vedo io, assume un ribaltamento estetico, possiede una connotazione sensuale d’altri tempi tesa a simboleggiare una femminilità concettualmente lontana dall’idea di pornografia come la intendiamo noi oggi.
MR: Quanto pensi che un linguaggio formale come la scultura classica ti protegga o comunque ti permetta di esplorare più liberamente queste idee?
LP: Non sto cercando un riparo. La scultura antica ha una storia legata agli ermafroditi e altre divinità come Priapo, dove l’aspetto se mi consenti “provocatorio” come lo intendiamo noi era assente. Oggi si è completamente rovesciato il concetto di cosa voglia significare in arte l’esibire o mostrare parti intime.
In ambito artistico il corpo lo si è cominciato a ri-spogliare senza pudore intorno alla metà dell’Ottocento, ma solo dopo gli orrori della seconda guerra mondiale e la rivoluzione culturale degli anni Sessanta è avvenuto quello stravolgimento estetico al limite dell’orrido e dell’osceno che ha cambiato il nostro modo di osservare.
Queste sculture erotiche del passato nascoste per secoli nei sotterranei dei musei perché considerate “scottanti” sono tornate alla ribalta dopo aver preso luce sotto i riflettori della storia. Non possiamo nemmeno immaginare quanto siano importanti questi reperti per l’arte contemporanea.
Le opere tridimensionali cambiano continuamente di significato, questo è un altro fatto straordinario. La scultura antica non era giudicata esteticamente come si fa attualmente, è stata la critica moderna che ha permesso una nuova visione delle cose fungendo da tramite col mondo antico.
MR: Nella società contemporanea la fantascienza è un territorio tradizionalmente privilegiato per esplorare argomenti scottanti proprio perché la combinazione di elementi del passato e del futuro tutelano una discussione sul presente. Quello che mi chiedo è se nel tuo lavoro l’adozione di un formato distante dagli argomenti che vuoi discutere non svolga questo ruolo.
LP: Sì, però attenzione, nella storia ci sono stati dei momenti di veli, evirazioni e coperture varie. È capitato anche ai grandi artisti, mi pare che addirittura il David di Michelangelo sia stato velato. Io cercavo di avere un rapporto con un tipo di statuaria che va dal Rinascimento al Novecento italiano in cui ci si occupa di alcune problematiche legate alla sessualità. A Roma c’è una statua bellissima di un ermafrodito classico che per 1800 anni è stata censurata e solo adesso a distanza di parecchi secoli si è rotto questo tabù ed è stata esposta. Perché? Perché siamo cambiati.
Qualcuno mi ha fatto notare il rapporto bianco/nero tra bronzo e marmo a livello razziale. Sinceramente non mi dispiacciono questi fraintendimenti che sfociano nella provocazione. Secondo me la paura di entrare in un contesto pornografico sarebbe stata valida se avessi utilizzato un oggetto da sexy shop. L’ho pensato, perché prendere oggetti del quotidiano è un tratto ricorrente nel mio lavoro, però ad un certo punto mi sono bloccato, e ho deciso di plasmare il fallo proprio per restare fedele all’idea iniziale, cioè quella di realizzare la scultura nella totalità dell’insieme. Questo mi ha permesso anche di riprendere una questione legata ai problemi della statuaria tradizionale: la torsione, la monumentalità, la postura. Una cosa che mi intriga della scultura in Piazza XXV Aprile è proprio l’operazione di collocazione, perché mi permetterà di interagire con lo spazio architettonico.
MR: È una piazza molto particolare architettonicamente. Ha un’architettura prevalentemente novecentesca con una porta dell’ottocento.
LP: Sì, sembra un arco di trionfo.
MR: Pensi che il personaggio principale di Platonic Love abbia un ruolo protettivo?
LP: La relazione del personaggio principale con la bambola è ambigua. Il significato è da interpretare.
MR: Uno dei concetti base della prima statuaria classica è anche quello della neutralità. C’è una specie di superiorità rispetto alla figura umana autentica, soprattutto per via dell’espressione facciale dei personaggi. Si tratta della rappresentazione di figure spirituali in fin dei conti. Veneri, Apolli, ecc.
LP: Sì, sono figure idealizzate. Idoli in pietra da venerare.
MR: Pensi che Platonic Love rifletta questo punto?
LP: Forse è una dinamica che si crea quando i due personaggi dialogano con il pubblico.
MR: Prima di optare per la scultura in Piazza XXV Aprile, la tua idea iniziale era di appropriarti di spazi pubblicitari inutilizzati e lavorare con delle luci. Come mai hai rinunciato?
LP: Mi ha fermato l’impossibilità di utilizzare i fasci di luce che usano le discoteche. Sono state fatte delle leggi perché creano una forma di inquinamento luminoso per gli aerei, ed è molto difficile avere il permesso per i centri abitati. Non so se ho fatto bene o male, quando ci sono ostacoli insormontabili io tendo a passare ad altro. Questa purtroppo era una cosa che non sapevo come risolvere. Da un punto di vista estetico avevo un’idea ben chiara che non avrei potuto trasferire o rifare in un altro modo, per cui ho lasciato perdere. Però in questa residenza sono nate molte altre idee che voglio sviluppare.
MR: Ci sono tante idee che in effetti vanno in direzioni diverse. Anche quando hai deciso di scrivere in pennarello sul blocco di marmo…
LP: Quando mi sono trovato di fronte al blocco “eletto” a Carrara non ho avuto dubbi. Ho sentito subito un feeling emotivo, gli ho scattato una foto, poi osservando con attenzione l’immagine nel monitor della macchina fotografica ho subito notato alcuni particolati come i dati tecnici impressi in pennarello nero sopra il blocco recanti un numero di codice e il peso in tonnellate. Dati preziosi che mi hanno ispirato a trovare in breve tempo il titolo per la statua, Anima Mundi.
Da quel preciso scatto fotografico e nata l’idea di immortalare col pennarello nero il titolo iscrivendolo direttamente sull’immagine vicino ai dati autografi sul blocco. Nello stesso giorno ho realizzato Montagna celeste, un’immagine interventata con una breccia di marmo dello stesso blocco che ho scelto. In realtà vorrei realizzare un progetto scultoreo dalle dimensioni faraoniche, un intervento a fissa dimora, in cima all’alpe Apuana.
MR: In cosa consiste?
LP: Mi piacerebbe vedere questo mio sogno prendere forma sul monte delle cave di Carrara, cioè portare enormi lastre di marmo estratte direttamente dalla cave sottostanti in vetta per devastare del tutto il promontorio con un intervento dal suggestivo impatto ambientale. Un intervento scultoreo che seppur “discutibile” potrebbe auspicabilmente ridonare a quel luogo una nuova veste che artisticamente parlando, a mio parere, andrebbe a tamponare lo scempio già fatto per estrarre il marmo. Sarebbe un’operazione volta a ridare identità alla montagna che prevede la realizzazione di enormi ghiacciai di marmo a ricordare quelli stereotipati che si vedono disegnati nei fumetti Disney.
MR: È una montagna inquietante. Sembra quasi divorata…
LP: Si, scavata. La discussione sullo scempio paesaggistico, sul deturpamento ecologico, va avanti da tempo. Ci sono una serie di conflitti sul territorio. Vorrebbero chiudere le cave, però siccome sono delle miniere d’oro, credo che la montagna alla fine sarà livellata. Mi piacerebbe fare un lavoro lì perché avrebbe un impatto veramente forte, stravolgerebbe i connotati di una realtà, ma non è possibile. In realtà l’ironia è anche questa, non si può fare niente perché la stanno distruggendo. Non ha senso.
MR: Qual è la cosa che più ti affascina del marmo?
LP: Il suono. Quando mi sono deciso a prendere questo blocco era perché gli ho dato un colpo con un sasso e ha suonato come una campana. Il marmo ha un suono meraviglioso che tende a svanire durante la lavorazione e inizia a recuperarlo solo quando la scultura si avvicina alla forma compiuta. Bisogna stare attenti perché quando ricomincia a suonare vuol dire che sei quasi arrivato al limite. Ed è l’aspetto più emotivo. Quando lavori alla materia i sensi sono tutti coinvolti, le mani, l’olfatto, la vista, l’udito, però quando vedi che gli occhi percepiscono i cristalli che luccicano, le mani toccano la superficie che è levigatissima, le orecchie sentono dei suoni, ti accorgi di essere in un ambito dove raggiungi la pace dei sensi in quanto appagato nel momento in cui lavori. Senti la compiutezza del fare. Quella è la cosa che mi intriga di più. Oggi lavorare il marmo è una cosa difficilissima, anche pericolosa, perché ci sono le polveri, si usano dei dischi diamantati, devi avere sempre rispetto di questi attrezzi. È un mondo magico e affascinante, che contiene anche dei pericoli, però le sensazioni legate alla luce, al tatto e al suono ne fanno un materiale straordinario.
Materia Grigia
Catalogo, ImperfettoArt 2019
Giancarlo Papi
Marco Neri e Leonardo Pivi sono pressoché coetanei. Il primo è del 1968, il secondo del 1965. Entrambi hanno le stesse radici romagnole e sono amici da sempre. Anche se con incursioni in altri linguaggi, fondamentalmente Neri è pittore, mentre Pivi è scultore e, nonostante sia sempre stato un loro desiderio, non si è mai presentata l’occasione di esporre insieme. Fino ad ora.
Sono loro, infatti, gli artisti invitati ad inaugurare Imperfettoart, il nuovo spazio espositivo ricavato all’interno di un fabbricato industriale situato a ridosso della via Emilia a qualche chilometro da Rimini, proprio nel cuore di quel territorio cui sono fortemente legati.
La mostra testimonia l’approdo della loro ricerca più recente. “Materia grigia” è il titolo che, se da una parte è riconducibile al colore protagonista della scarna tavolozza di Neri e dei materiali (cemento, sassi) molto utilizzati da Pivi, dall’altro sottolinea come per la ricerca di entrambi sia l’intelligenza a sviluppare ciò che le emozioni segnalano.
Ovvero il calore dell’emozione unito alla freddezza del ragionamento.
Ed è, indirettamente, un omaggio a Piero della Francesca che, parafrasando Mimmo Paladino, è colui che ha avuto “la capacità di creare colore dal grigio”.
L’esposizione è incentrata su una sola opera per ciascuno con il particolare curioso di essere realizzate, in qualche misura, con una sorta di scambio di ruoli: Neri realizza un’installazione tridimensionale; Pivi presenta un’opera a parete con vista frontale.
Collocata a terra su una pedana alta una sessantina di centimetri, l’opera di Neri, dal titolo Costruire, è una grande maquette di un aggregato urbano realizzato assemblando e dipingendo scatole di varie dimensioni. Pivi con Mappa concettuale occupa un’intera parete su cui è intervenuto effettuando una disinvolta scorribanda del suo universo denso di memorie antiche, ricordi autobiografici, maschere indecifrabili, figure antropomorfe, oggetti e manufatti.
Sono opere monumentali e inedite che, coniugando rigore e seduzione, rappresentano la somma delle loro poetiche.
Opere che spaziano tra rispetto delle geometrie e volontà di calibrare una libera drammaturgia. Da un lato, il bisogno di affermare con forza la centralità del progetto, del senso della misura e dell’armonia.
Dall’altro, la necessità di dare voce agli slanci dell’immaginario, con abbandoni onirici.
Neri pensa alla pittura non come discorso letterario, ma come ostinata costruzione di toni, di geometrie, di superfici ed è più interessato a fare immaginare piuttosto che al solo rappresentare, non trascurando il come dipingere rispetto a che cosa dipingere. Convinto assertore delle immutate potenzialità espressive della pittura, Neri attraverso un’estrema sintesi formale e con una ridotta gamma cromatica, rende plausibili architetture immaginarie ottenute dall’immediatezza di una pennellata disposta ad accogliere l’imprevisto. Dunque, restringendo il proprio campo d’azione in regole ferree, Neri restituisce un’idea di architettura segnata da un costruttivismo formale che testimonia una rigorosa organizzazione spaziale che elude i confini tra astrazione e figurazione.
Pivi è attratto dai miti e riti di culture lontane, ma anche contemporanee. Recuperando tecniche difficili e desuete di lavorazione di materiali simbolo per eccellenza quali, come abbiamo sopra citato, il cemento e i sassi, ma anche la pietra o i ciottoli levigati dall’acqua, attualizza l’arcaico e mitizza il sacro. Lo fa con ironia, ma anche con una certa dose di cinismo e di sarcasmo, modificando scale e rapporti, combinando organico e inorganico, vero e falso, così da creare un universo di senso complesso e stratificato in cui emblemi e simboli si mescolano incessantemente. In quest’opera di attraversamenti in continua trasformazione riveste un ruolo primario l’impiego del linguaggio musivo, grazie alla cui raffinatezza “fuori tempo”, Pivi trasforma in icone quasi araldiche le immagini più banali e convenzionali.
Leonardo Pivi, o del valore cultuale dell’opera d’arte
Catalogo, ImperfettoArt 2019
Daniele Torcellini
Il farmacista Luca Landucci nel suo Diario Fiorentino del 1512 ci racconta del mostro di Ravenna: “[…] aveva in su la testa un corno ritto in sù che pareva una spada, e in iscanbio di braccia aveva due ali a modo di pilpistrello, e dove sono le poppe, aveva dal lato ritto un fio, e dall’altra aveva una croce, e più giù, nella cintola, due serpe, e dove è la natura era di femmina e di maschio; di femmina era di sopra nel corpo, e ‘l maschio di sotto; e nel ginocchio ritto aveva un occhio, e ‘l piè manco aveva d’aquila […]”.
La pratica artistica di Leonardo Pivi, vissuto e formatosi proprio a Ravenna fino all’avvio del percorso accademico a Bologna, sembra fiorire in quell’ossimorico contrasto che si genera giustapponendo l’iconografia del mostro descritto da Landucci e le iconiche rappresentazioni sacre e imperiali dei mosaici di V e VI secolo. Un contrasto che, dall’industrializzazione del secondo Novecento, a Ravenna è ancor più rimarcato se solo si pensa alla sontuosità delle basiliche paleocristiane e all’innesto violento e inquietante – ben descritto da Michelangelo Antonioni in Il deserto rosso – di uno dei poli petrolchimici più importanti d’Italia, orizzonte visivo dell’infanzia e dell’adolescenza dell’artista.
L’immaginario di Leonardo Pivi si muove su più registri. Da un lato dominano la scena mostri e portenti, da medioevo fantastico – per usare le parole di Jurgis Baltrušaitis –, frutto di un lavoro manuale che è filtro imprescindibile per l’attribuzione di un senso più spesso ellittico piuttosto che esplicito. Segni premonitori o manifestazioni allegoriche del divino. Un campionario di mutazioni, deformazioni, sproporzioni, disarmonie, goffaggini, di corpi grotteschi e sfigurati, la cui perturbante mancanza di familiarità ci porta però al cospetto di un olimpo di ipotetici idoli. Come a recuperare il valore cultuale dell’opera d’arte che Walter Benjamin commentava come perdita inevitabile a favore del valore espositivo, in conseguenza della riproducibilità fotografica. Ed è proprio entro i confini del panorama mediaticamente sovraesposto che la fotografia e poi il cinema, e a seguire televisione e web, hanno consacrato, che si definisce un secondo fronte della pratica di Leonardo Pivi. Le icone – very important people – dell’immaginario contemporaneo, sospeso tra riferimenti colti e popolari, sono oggetto di paradossali trasfigurazioni, non tanto formali quanto piuttosto materiali, incarnandosi nel mosaico, il medium della durata nel tempo e della presentificazione del divino.
Per Leonardo Pivi tutto è contemporaneo. Nel venire meno delle grandi narrazioni e della legittimazione istituzionalizzata del sapere, l’orizzonte post-moderno gli offre la possibilità di aggirarsi nei territori della storia dell’arte, dalle caverne paleolitiche in poi, con grande agilità, per parlare dell’oggi attraverso forme, modi e tecniche che recuperano il passato, lo distorcono, lo mescolano con il presente, guardando al futuro. Amuleti scolpiti da primitivismo etnografico, come quello in mano all’imponente guerriero di In silenzio religioso; dipinti da rinascimento nord-europeo – Lucas Cranach o Pieter Bruegel –, come in Atto vandalico, dove il senso dell’opera si completa per via di innesti di realtà; e quindi l’assemblaggio e il collage, perché superato il concetto di storia come progresso verso un fine, tra un secolo fa e quindici secoli fa non c’è differenza, come in La tardona o Summer beach che puntano il dito sugli effetti collaterali del perseguire la bellezza a tutti i costi; il marmo di Carrara, levigato come nella statuaria classica, che in Anima mundi esibisce un ermafroditismo geneticamente perverso; disegni, sia con i connotati di momento progettuale ed esplicativo di altri lavori, sia come opere in sé, come in Faunistico marino. Il mosaico, eredità ravennate per eccellenza, matrice tecnica di una ampia gamma di opere, come in Atto di preghiera per il quale l’incedere stentato e fiabesco dei mosaici di XIII secolo, poco noti e conservati nella basilica di San Giovanni Evangelista di Ravenna, è orizzonte visivo fondativo. E ora l’installazione qui presentata – Mappa concettuale – l’ipotesi di un nesso logico, immaginifico ma anche del tutto personale che, come in un mosaico, tenga insieme le parti.